Giovedì, 15 Marzo 2012 08:45

"DARE VITA AI GIORNI E NON SOLO GIORNI ALLA VITA"

Un fatto avvenuto non più di un mese addietro riporta all'attenzione di tutti noi una questione che, anche se non in cima all'agenda dei nostri pensieri, ne dovrebbe comunque occupare un non residuale spazio: ci fa riflettere come sia adagiata su di un comodo conformismo l'impostazione bioetica della maggioranza degli uomini di chiesa reggini.

 

Un malato di cancro in fase terminale di settanta anni, residente nell'Hospice "Casa di Gelsi" in provincia di Treviso, ha chiesto ai medici di essere lasciato morire e di non essere né dissetato con l'idratazione né sfamato con la nutrizione parenterale. È stato accontentato, anche perché l'alternativa sarebbe stata quella, assurda e inumana, di immobilizzarlo e ingozzarlo: non ha sofferto perché, oltre un certo limite, è lo stesso corpo che rifiuta di essere sostenuto.

Ma la notizia, pur importante, non è questa: sappiamo benissimo che in assenza di regolamentazione questi fatti accadono molto più frequentemente di quanto si possa immaginare; che la quantità di farmaco sedativo del dolore da somministrare alcune volte è solo di poco inferiore a quella necessaria a determinare un exitus; che la linea divisoria tra eutanasia e sospensione terapeutica è a voplte quasi indistinguibile.

È che, all'indomani della decisione del paziente dell'hospice, il parroco del luogo (don Aldo Danieli di Paderno Ponzano) così si è espresso: "A un certo punto se ci si lascia andare si segue solamente quella che è una legge naturale: confesso che se fossi stato io nei panni dei medici non l'avrei mai costretto a mangiare e a bere, perché bisogna dare vita ai giorni e non limitarsi a dare dei giorni alla vita, aspetto che è valido anche quando si parla di accanimento terapeutico e che non va certo fuori dalle indicazioni date dalla Chiesa".

Obbligo dell'uomo di chiesa non è quello di recitare sermoni dall'alto del suo pulpito ma di scendere tra i sofferenti e, se necessario, accompagnare fino alla fine il malato assecondandone i desideri, anche quando questi lucidamente si concretizzino nel non voler far nulla per continuare una vita che non viene più reputata degna di essere vissuta.

Ho grande stima per gli uomini di chiesa reggini che conosco e, non molto spesso, frequento: da essi ho avuto e continuo a ricevere buoni input; con alcuni di loro, inoltre, ho intrattenuto e intrattengo un buon rapporto culturale; li apprezzo tutti, infine, per l'attività giornaliera che svolgono in aiuto dei deboli e dei bisognosi in genere. Però, ogni qual volta che ci si avvicina al tema dell'accompagnamento pastorale del malato verso una fine di vita che possa essere anche "scelta" e non imposta dal caso o dalla fatalità, ecco che è come se scattasse un riflesso pavloviano. Come il cane di Pavlov che sbava, loro si bloccano, li senti a disagio, cambiano discorso: finisce lì la loro libertà di pensiero e il loro libero arbitro si collassa sotto il peso del dogma.

Don Aldo Danieli, invece, è stato diretto e preciso: "leggo questa difficile decisione come il suicidio di una persona che non ha più veri spazi di libertà: è un dolore che va guardato con rispetto e senza dare giudizi".

Don Danieli non è ai vertici della gerarchia clericale, né penso lo sarà mai: ma le sue parole, che comunque non sono in contrasto con la dottrina, sono ugualmente illuminanti: a volte poche parole ben dette rendono miglior servizio all'uomo di un trattato di bioetica. Piuttosto che sterili predicozzi, sono queste le parole che vorremmo ascoltare dai parroci reggini, parole di concreta vicinanza ai problemi veri dell'uomo.

 

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