D'altronde, quante carriere di magistrati sono state letteralmente costruite con l'insistenza quasi maniacale sul tema della lotta alla criminalità organizzata esibita in convegni e conferenze, quante carriere politiche sono cresciute all'ombra di proclami antimafia facilmente attinti dall'inesauribile armamentario dialettico disponibile sui media, quante associazioni hanno fatto sbarcare il lunario ai loro adepti spiegando al volgo bruto e ignorante cosa significa educazione alla legalità, quante cooperative agricole fanno campare dignitosamente i loro soci lavorando i terreni confiscati alla mafia?
Una citazione illuminante. «Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno.». È di Leonardo Sciascia da "I professionisti dell'antimafia", fondo uscito su "Il Corriere della Sera" del 10 gennaio 1987.
Lo Sciascia, intendendo stigmatizzare la promozione ottenuta dal magistrato Giuseppe Borsellino ai danni di un suo più anziano collega per meriti "antimafiosi" in deroga al criterio dell'anzianità, se si esclude questa "gaffe" di cui ebbe a scusarsi più volte pubblicamente, con lucidissima preveggenza in questo articolo evidenziava quello che negli anni a venire sarebbe diventato un trend consolidato: facilitazioni nelle carriere sia giudiziarie che politiche, a volte intrecciantesi, derivanti a coloro i quali avessero saputo professionalmente cavalcare la tigre dell'antimafia.
Ai giovani disoccupati reggini, piuttosto che trascorrere stancamente le giornate consumando i lastroni dei marciapiedi del Corso Garibaldi, consiglio di leggere Leonardo Sciascia, tutto, e anche "La mafia durante il fascismo", di Christopher Duggan per Rubbettino, in cui si descrive come il fascismo si servì dell'«antimafia» in Sicilia per potersi imporre, tra l'altro additando e trattando da mafiosi gli oppositori politici. Così Sciascia che commenta il libro di Duggan nel citato articolo. «Sicché se ne può concludere che l'antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime (...) ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all'ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come "mafioso". Morale che possiamo estrarre (...) e da tener presente: l'antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. »
Dato che da noi risaputamente "la retorica aiuta e lo spirito critico manca", a questi nostri giovani disoccupati consiglio di esplorare le potenzialità offerte dall'esercitare in maniera costante e soprattutto professionale il ruolo dell'antimafioso: se non proprio politico o magistrato di successo, ruoli con cui esercitare e brandire la "antimafia come strumento di potere", certamente alla loro portata potrebbe essere il divenire educatore alla legalità o coltivatore di terreni confiscati, lavori con cui comunque sbarcare dignitosamente il lunario.