Appena sotto stress, la lucida facciata dei buoni rapporti formali tra le città delle Calabrie si infrange: l’antico livore contro Reggio, l’unica città calabrese con respiro metropolitano e con possibilità di sviluppo extraregionale, si rende manifesto nelle parole di politici e amministratori cosentini e catanzaresi.
L’ultimo veleno è stato vomitato da Pietro Mancini, figlio di quel grande nemico di Reggio che fu Giacomo, che si è lamentato che l’effige del padre non venne portata in processione per le vie reggine bensì bruciata durante i Moti del 1970, definiti come “rivolta dei fascisti di Ciccio Franco”.
All’attenzione del pargolo Mancini è quindi doveroso sottoporre alcuni dati che attenuino la sua ignoranza sui dolenti fatti storici, dei quali fu corresponsabile l’augusto padre, che segnarono un’indelebile cicatrice sul vissuto e sull’identità calabrese.
Non etichettabili politicamente, i Moti furono specificatamente contro la politica: non solo la governativa, che ordiva le trame, e della sinistra, che non capì ciò che stava accadendo e che non condivise le rivendicazioni; ma anche contro quella della destra, che a livello regionale osteggiò fortemente le rivendicazioni reggine. Questa tesi si basa su tre fatti.
Primo fatto.
Come votarono i reggini alle elezioni del 7 giugno del 1970, poco più di un mese prima di quel 14 luglio in cui cominciò, spontanea e popolare, la rivolta? Su 50 seggi comunali: 23 andarono alla DC, 8 al PSI, 7 al PCI, 6 al PSU, 1 al PSIUP, 1 al PRI, 1 al PLI, 3 al MSI. Su 30 seggi provinciali: 10 furono assegnati alla DC, 5 al PSI, 7 al PCI, 2 al PSU, 1 al PSIUP, 1 al PRI, 1 al PLI, 3 al MSI. Su 11 consiglieri regionali della Provincia reggina: 5 furono della DC, 2 del PSI, 3 del PCI, 1 del PSU.
Nella ricostruzione dei fatti storici bisogna pur partire da qualche dato certo: è incontrovertibile che, prima dei Moti, Reggio (con un MSI che aveva espresso: 3 consiglieri comunali su 50, 3 provinciali su 30, nessun consigliere regionale) non poteva proprio definirsi una città di destra.
Secondo fatto.
Cosa accadde il 13 gennaio del 1971? Il presidente del Consiglio regionale, Mario Casalinuovo (del PSI), nel portare avanti con fermezza la tesi che la decisione sul Capoluogo spettasse non al Parlamento bensì al Consiglio regionale (dominato dall’asse Catanzaro/Cosenza), fa partire dall’Ordine degli avvocati l’idea del “Comitato d’Azione per la difesa dei Diritti di Catanzaro”. Questo, per lottare contro le “illegittime pretese di Reggio tendenti a sottrarre a Catanzaro il capoluogo della Regione con i suoi importanti uffici, tra cui la Corte d’Appello”, propose l’estromissione della Sezione di Corte d’Appello di Reggio “dai Tribunali delle Calabrie” e il suo riaccorpamento a quella di Messina, di cui aveva fatto parte dal 1923 al 1944.
[Per inciso bisogna ricordare che le convocazioni del Consiglio Regionale a Catanzaro nel luglio del 1970 avevano fondato la loro legittimità sul fatto che Catanzaro fosse Sede di Corte d’Appello. Questo era l’unico ufficio mancante a Reggio, che dal 1947 era Sezione distaccata della Corte d’Appello di Catanzaro. Reggio divenne autonoma solo il 5 luglio del 1989].
Insieme all’avvocato Casalinuovo, il maggiore sponsor dell’operazione fu un avvocato del foro catanzarese, il consigliere regionale del MSI Giuseppe Marini.
Terzo fatto.
Come votò il Consiglio regionale il 15/16 febbraio del 1971? Questo si riunisce con un o.d.g. che ricalca l’accordo romano (Sede del Consiglio Regionale a Reggio, Centro siderurgico a Gioia con 7500 assunti, altre industrie in Provincia con 3000 assunzioni, inamovibilità di tutte le sedi regionali e gli uffici che si trovavano a Reggio nel febbraio del 1971). Quattro consiglieri regionali reggini (Pasquale Iacopino, Domenico Intrieri e Antonino Lupoi, democristiani, con Benedetto Mallamaci, socialdemocratico) non partecipano per protesta.
Alle sei del mattino del 16 l’o.d.g della maggioranza venne approvato con 21 voti favorevoli (14DC, 5PSI, 1PRI, 1PSDI) e 12 contrari (9PCI, 1MSI, 1PLI, 1 PSIUP) 1 astenuto (Casalinuovo).
I voti contrari furono così motivati: PCI e PLI avrebbero voluto Catanzaro capoluogo unico con “possibili” sessioni di Consiglio in altre città; il PSIUP avrebbe preferito un assetto unitario calabrese senza specificazione di capoluogo; MSI si espresse per Catanzaro capoluogo unico senza nessuna concessione ai beceri campanilismi reggini, formalizzando inoltre la sua posizione con una protesta ufficiale del suo gruppo consiliare: “per un’assurda destinazione dell’Assemblea in luogo diverso dal capoluogo, che è stato, è e dovrà continuare a essere Catanzaro”.
Fatti presente questi dati che garantiscono la fondatezza della tesi secondo cui quelli di Reggio non furono Moti politici ma di popolo, al pargolo Mancini auguriamo di saper correggere il tiro dei suoi strali e di concentrarsi sui veri problemi della sua Cosenza e della Calabria.