In periodi di crisi, come quello che stiamo attraversando, ci si deve inventare qualcosa o, meglio, riscoprire cose già fatte e riadattarle ai tempi mutati. Da qui il generale interesse per le teorie keynesiane.
Nel suo Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, frutto delle riflessioni che seguirono alla grande crisi del 1929, John Maynard Keynes affonda un attacco diretto e in equivoco contro quei capisaldi della teoria economica “classica” di cui non aveva ancora riconosciuto chiaramente la debolezza e infondatezza del suo precedente Trattato della moneta, frutto delle minori e transitorie bufere monetarie del primo dopoguerra.
Allora era imperante un principio così sintetizzabile: un sistema capitalistico costituito da una rete di mercati integrati, se non influenzato negativamente da disposizioni centrali o da pressioni sindacali agenti sui prezzi al consumo e sul costo del lavoro , è in grado di produrre una piena occupazione. L’economista inglese affermò che questa piena occupazione la si sarebbe potuta raggiungere solo a patto che il potere centrale non si limitasse a dettare le regole del gioco bensì operasse direttamente sul mercato con decisi e sostanziali interventi correttivi.
Per il raffinato intellettuale, che a soli 38 anni fu presidente della Società degli Apostoli di Cambridge, il più selettivo circolo universitario del Regno Unito, la via del paradosso non poteva non essere rappresentata tra gli iter dimostrativi: cosa che fece per spigare meglio la sua teoria per la quale, al limite, pur di far uscire l’economia da una fase congiunturale, non era importante come il denaro pubblico venisse speso purché fosse comunque speso.
Il paradosso è presente nella Teoria Generale. “Se il tesoro si mettesse a riempire di biglietti di banca vecchie bottiglie e le sotterrasse a una profondità adatta in miniere di carbone abbandonate; se queste fossero poi riempite fino alla superficie con rifiuti di città e si lasciasse all’iniziativa privata, secondo i ben noti principi del lasciar fare, lo scavar fuori di nuovo i biglietti: non dovrebbe più esserci disoccupazione e, tenendo conto degli effetti secondari, il reddito reale e anche la ricchezza capitale della società diventerebbero probabilmente assai maggiori. Effettivamente sarebbe più sensato costruire case o simili: ma se per far ciò si incontrassero difficoltà politiche o pratiche, quanto sopra sarebbe comunque meglio di niente”.
Al di là dell’eleganza formale che ne esalta la resa, è lo spirito del paradosso che va recepito: per far uscire l’economia da una fase congiunturale, non è importante come il denaro pubblico venga speso purché sia comunque speso.
Veniamo ora a noi e alle nostre esigenze locali. Data per valida e accettata la teoria secondo cui la ricchezza di un territorio, anche prescindendo da apporti esterni, aumenta per il solo fatto che tra le sue parti avvengano degli scambi commerciali, adattiamo all’economia dell’Area dello Stretto le teorie di Keynes e i suoi paradossi.
Se gli Enti Locali, prescindendo dai progetti e finanziamenti statali per la c. d. metropolitana del mare, si facessero parziale carico delle spese di trasporto persone tra le due sponde al fine di garantire un ticket di viaggio dal costo poco più che simbolico, una maggiore frequenza delle corse e un orario di corse esteso anche alle ore serali e non dimezzato nei giorni festivi, l’interscambio commerciale tra le due sponde dello Stretto subirebbe una notevole impennata. La metropolitana del mare, che solo alle citate condizioni potrebbe legittimamente definirsi tale, usata non solo dai pendolari ma anche per motivazioni che non fossero solo di studio o lavoro, si dimostrerebbe un poderoso volano per il settore commerciale e turistico di tutto il comprensorio territoriale gravitante sul nostro braccio di mare.
L’introduzione di un ticket dal costo politico per il servizio passeggeri sullo Stretto è certamente molto meglio, per spingere l’economia dell’Area, che “riempire di biglietti di banca vecchie bottiglie” e, nel nostro caso, abbandonarle alle correnti dello Stretto e “lasciare all’iniziativa privata, secondo i ben noti principi del lasciar fare”, il loro recupero. Ma, osservando come a volte vengono sperperati i soldi pubblici, sembra che i nostri amministratori abbiano preso alla lettera il paradosso di Keynes.