Martedì, 06 Gennaio 2009 22:10

I FLÂNEUR DEL CORSO GARIBALDI

 
 “La città con i suoi lampioni, le vie ampie così piene di gente, la vitalità dei suoi abitanti, ci indusse a vedere Reggio, per l’animazione e le sue tante luci, come una specie di Parigi”. Edward Lear, letterato e disegnatore inglese che visitò la nostra città nel 1847 lasciandoci le splendide immagini dello Stretto del suo “Viaggio a piedi”, anche così la descrive.

Partendo da questa citazione, ci si può sentire autorizzati a usare il termine “flânerie” (coniato nel 1850, nello stesso periodo in cui Lear visitava Reggio, da Charles Baudelaire per indicare l’apparentemente ozioso passeggiare per le vie di Parigi) per definire quell’attività che, svolta con passione e determinazione dalla borghesia reggina, fu una delle poche a superare indenne la tragedia del 1908.

Infatti, se è pur vero che, come afferma Lucio Villari, “certi modi di essere e di pensare, sedimentati e filtrati nella lunga durata della storia, se distrutti non possono facilmente ritornare”, è anche vero che la figura del “flâneur” (ovvero del borghese che usa in modo “creativo” il passeggiare per incontrare persone e amici oltre che per osservare i fatti e i modi della vita cittadina) è sopravvissuto indenne alla feroce cesura del 28 dicembre. Modello adottato anche dalla sinistra colta del Novecento (Walter Benjamin usò la “flânerie” oltre che come strumento analitico della società urbana anche come stile di vita e fonte di riflessioni estetiche) il “flâneur” è diventato nel primo Novecento, quello della ricostruzione reggina, una delle icone della modernità europea.

La “flânerie”, quindi, dà sensazioni che il semplice camminare non è in grado di dare: cosa sente il “flâneur” reggino nel passeggiare sopra la nuova pavimentazione del Corso Garibaldi o nell’attraversare il nuovo assetto di Piazza Carmine?

Proviamo a immaginarlo, visto il trait d’union stabilito con Parigi e la sua cultura, con la guida di Roberto Calasso e del suo “La folie Baudelaire”.

Nella Parigi dei primi dell’Ottocento per andare dal Luovre alle Touleries era necessario attraversare un quartiere che gravitava su Place du Carrousel: “campo di baracche”, ammasso informe di uomini ed animali, ingombro di relitti, quell’anacronistico sconcio in pieno centro cittadino fu abbattuto per creare una giunzione tra le Palais Royal e i giardini. Balzac, prima della demolizione, così si esprimeva: “L’esistenza del blocco di case che si trova lungo il vecchio Louvre è una di quelle dichiarazioni di protesta che i Francesi amano fare contro il buon senso”.

Ma Baudelaire, pur tra gli “inventori” della modernità, mentre calca il selciato del nuovo Carrousel, avverte che i suoi piedi stanno calpestando qualcosa che è divenuto per sempre invisibile: qualunque sia il luogo, qualunque sia la condizione, c’è sempre un altro luogo, c’è sempre un’altra condizione che sono perduti per sempre. Un’infelicità assoluta deriva dalla pura constatazione del crudele effetto livellatore dell’assenza. Puro lutto: ciò che è assente, scomparso, è affidato a un’insanabile inesistenza.

Passeggiando sul Nuovo Corso o attraversando la Nuova Piazza, dal selciato regolare ed elegante e pulito, il “flâneur” reggino, pur riconoscendo che il mantenimento del vecchio impianto sarebbe stata una “dichiarazioni di protesta contro il buon senso”, sente che qualcosa di importante, carico di atmosfere e sensazioni e storia, è andato irrimediabilmente perduto.

Il “flâneur” reggino, alla fine , si dovrà comunque rassegnare: il tratto decisivo di qualunque cosa è di scomparire.

 

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