Mercoledì, 29 Luglio 2015 10:28

IL RUOLO DELL’INTELLETTUALE

Divagazioni sui rapporti tra cultura, "senso comune" e impegno sociale

Inizia nel 1894, in Francia, la "storia" degli intellettuali. In quell'anno il capitano Alfred Dreyfus, accusato di spionaggio in favore dei tedeschi, venne condannato all'ergastolo dal tribunale militare. Quattro anni dopo, nonostante che il vero colpevole fosse stato scoperto, i vertici dell'esercito tentarono di insabbiare il processo per non riconoscere l'errore giudiziario. L'ebreo alsaziano Dreyfus avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni all'Isola del diavolo, nella Guayana francese, se Emile Zola, pur continuando a fare solo il letterato, non si fosse trasformato nell'antesignano e a un tempo paradigma di quella figura che Jean-Paul Sartre, teorico dell'intellettuale interventista, avrebbe definito nel 1965 con icastica lapidarietà come "quelc'un qui se mêle de ce qui ne le regarde pas" ("quel tale che si impiccia dei fatti altrui").


Il 13 gennaio del 1898 L'Aurore apre la sua prima pagina col "J'accuse ...!", lettera aperta al Presidente della Repubblica in cui Emile Zola denuncia la macchinazione ordita dalla destra militarista e antisemita in nome di una fraintesa ragion di stato. Il giorno successivo lo stesso quotidiano pubblica un documento sottoscritto dai sostenitori di Dreyfus: il "Manifesto degli intellettuali". È l'atto ufficiale di nascita del fortunato termine che, di fresco conio e uso incerto, assume proprio in questa occasione il significato che oggi gli attribuiamo; soprattutto quando, declinato al plurale, sviluppa appieno le sue implicazioni.

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Omettendo di riportare le definizioni storicamente ininfluenti, fino ad allora si erano usate varie espressioni per indicare gli "intellettuali": gli illuministi amavano definirsi "philosophes"; nel suo Dizionario Filosofico Voltaire parla di "gens de lettres"; Thomas Carlyle nel diciannovesimo secolo definiva il "letterato" come "il personaggio più importante" del suo tempo. E c'è da credergli se si pensa all'influenza che hanno avuto i versi di lord Bayron nel favorire l'indipendenza della Grecia e, più in generale, al ruolo svolto dagli "uomini di cultura" nei movimenti rivoluzionari che nel 1848 scossero l'Europa. In questa, peraltro, per effetto del pensiero positivista, si diffondeva sempre più l'idea che la società dovesse essere guidata dagli uomini di scienza ovvero da quella che Auguste Compte chiamava "corporation savante". Con l'inizio del ventesimo secolo, soprattutto con lo sviluppo esponenziale della stampa e delle correlate professioni di pubblicista e giornalista, il numero degli intellettuali si incrementa a tal punto da farli divenire quasi una classe sociale, un nuovo ceto, che col prestigio acquista potere.

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Nell'Italia di inizio Novecento, soprattutto a opera della scuola futurista e de La Voce di Prezzolini, si fa strada l'idea che alle minoranze intellettuali spetti un ruolo primario nella vita della nazione. Questo viene esercitato appieno con la nascita di quel movimento interventista che determinerà nel 1914 l'entrata in guerra. Col fascismo, nonostante che il Duce amasse dire che "il fatto vale più del libro", si afferma definitivamente, sebbene con un certo ritardo rispetto alle altre nazioni, la figura dell'intellettuale impegnato: un nuovo modello, attivo e positivo, contrapposto al tradizionale, estraniato dal contingente e chiuso nella sua turris eburnea, che Curzio Malaparte definiva "vilissima famiglia di intellettuali". Un prototipo di destra che presentava straordinarie analogie con quello proposto in seguito dalla sinistra.
Il 21 aprile del 1925, nella ricorrenza del Natale di Roma, Giovanni Gentile pubblica il "Manifesto degli intellettuali italiani fascisti agli intellettuali delle altra nazioni": a distanza di 27 anni dal Manifesto pubblicato da L'Aurore è il certificato di nascita italiano del termine "intellettuale". Benedetto Croce titola il manifesto antifascista del successivo primo maggio "Una risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani al manifesto degli intellettuali fascisti": sebbene il termine venga qui usato per definire coloro i quali hanno aderito al fascismo, nel testo si stigmatizza la sua appropriazione da parte del regime e si fa un distinguo tra i "veri intellettuali", che non si pongono al servizio di nessun partito mantenendo la propria autonomia, e gli "intellettuali fascisti", che compiono l'errore di "contaminare politica e letteratura, politica e scienza".


Nel corso degli anni il termine, sempre declinato al plurale, perderà completamente il suo sorgivo riferimento all'ideologia del Fascio, tant'è che sempre Croce lo utilizzerà per affermare che agli uomini di cultura che colpevolmente appoggiano il regime è contrapposta "la classe degli intellettuali, la cui forza si fonda sul culto del vero". Per tutto il restante periodo del Novecento il paradigma dell'intellettuale sarà una figura sempre meno estraniata dal contingente e impegnata a servire, più che il crociano "culto del vero", un'ideologia o una causa o un partito.

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Si potrebbe fare a meno degli intellettuali? Nonostante che l'abbracciare una "giusta causa" sia stato il vizio maggiore e sotto certi aspetti imperdonabile degli intellettuali; e che il loro impegno sia stato concausa, per il suo potere legittimante, dei tanti orrori che la storia contemporanea ci ha riservato; e che la loro attuale inflazione renda sempre meno credibili i loro moltiplicati appelli; risulta difficile pensare a un mondo senza intellettuali: l'alternativa sarebbe lasciarsi guidare o lasciare campo libero a quel "senso comune" che di errori ed orrori ne ha fatti certamente maggiori. Pertanto, accettando come migliore la definizione che ha dato Sartre ("l'intellectuelle est quelc'un qui se mêle de ce qui ne le regarde pas"), pur con tutti i loro indubbi vizi e difetti, gli intellettuali sono l'unico possibile argine all'omologazione culturale della "pensée unique" e allo strapotere del "senso comune"; sono l'unica voce in grado di controbilanciare quei poteri forti che su scala planetaria impongono le ragioni della razionalità economica come unico metro di giudizio; costituiscono l'eccezione, il luogo ideale della diversità, soli in grado di esplorare nuove strade e di salvare l'umanità dalla ripetitività e dalla mortale noia dell'ovvio.

 

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