INTERVISTA POSTUMA A DOMENICO DE MAIO Le città si modificano anche per l’apporto di chi, trasferitosi per costrizione o scelta, periodicamente vi fa ritorno: è un flusso continuo di idee ed esperienze che le arricchiscono e le relazionano ad altre realtà urbane. È così che la forzata emigrazione di braccia e intelligenze dalle città del Sud a volte si può trasformare per queste in opportunità di crescita. Il prof. Domenico De Maio, primario psichiatra in Milano, reggino della Provincia, di Polistena, scomparso da due anni, non aveva mai interrotto i contatti con la città natale e lo si vedeva spesso a Reggio in occasione di eventi scientifici o culturali. Ho avuto modo di incontrarlo più volte, anche nella sua residenza milanese. Quello che segue, resoconto sotto forma di intervista di due nostri incontri, vuole essere un omaggio alla memoria di questo nostro illustre concittadino. * * * VITALE - Parlami della tua esperienza professionale di reggino a Milano, e di come hai mantenuto le radici con la tua città. DE MAIO - Diversi anni delle mia gioventù li ho passati a Reggio. Nel 1945, maturatomi al liceo classico “T. Campanella”, mi iscrissi in Medicina e Chirurgia a Messina. Fattovi il biennio iniziale, la mia famiglia si trasferì a Milano. E’ lì che, laureatomi e specializzatomi, percorsi tutta la carriera professionale da assistente volontario fino a primario. Erano anni diversi dagli attuali di gran pletora medica e le carriere erano più veloci: ero primario già a 41 anni. Furono anni in cui, polarizzando le mie energie al successo professionale, trascurai la mia terra d’origine. Dagli anni ’60 in poi, con il lavoro assestato e consolidato, la mia calabresità ha preso nuovamente il sopravvento, sì che non ho mai perso una sola occasione di rientrare: non solo e non tanto per fare nostalgici tuffi nel passato o per rinverdire con amici e parenti lontani ricordi, quanto piuttosto per organizzare qui, nella mia terra nativa, nonostante le indubbie aggiuntive difficoltà, convegni e dibattiti scientifici riguardanti la psichiatria e la psicofarmacologia. Nell’ultimo di questi eventi venne presentata la reboxitina, un nuovo farmaco antidepressivo. RICORDO DI ANNA MARIA ROVERE VITALE - Anche tua moglie era originaria delle provincia reggina. DE MAIO - Anna Maria, di mamma napoletana, era figlia di un Rovere di Laureana di Borrello. Nacque a Reggio Calabria e vi rimase per circa tre anni. VITALE - Anna Maria Rovere è stata un grande soprano. Su di lei, ovvero sulla sua storia artistica, hai scritto un libro per i tipi dell’editore Laruffa che è stato presentato lo scorso anno qui a Reggio. DE MAIO - Anna Maria, caso rarissimo se non unico, debuttò alla Scala come suo primo teatro a soli 23 anni con l’opera “L’amore dei tre re”. Vinto un concorso, prima su duecento concorrenti, fu voluta per quel ruolo espressamente dal grande maestro Victor De Sàbata. Alla Scala cantò, in sei o sette diverse opere, per diversi anni; anni nei quali fu presente anche nei palinsesti di tutti i teatri italiani. L’editore Laruffa ha pubblicato un libro stupendo, degno della migliore tradizione grafica italiana. E’ stato presentato lo scorso anno in giugno presso il conservatorio musicale di Reggio Calabria. VITALE - Tornando a te, stavolta sei venuto a Reggio non solo per la consegna dei premi Anassilaos ma anche per presentare la tua ultima fatica scientifico-letteraria. “Imitando Didone”, uscito per i tipi di Franco Angeli, illustra la storia del suicidio e delle tendenze suicide nella letteratura e nell’arte oltre che nella società. DE MAIO - Soprattutto nella letteratura, personaggi resi immortali dai loro autori, come Anna Karenina o l’Amelia di Svevo, che hanno realizzato nella morte la fine delle loro angosce e delle loro sofferenze. Accanto a questi, vi sono i personaggi della vita di tutti i giorni. EUTANASIA E SUICIDIO ASSISTITO VITALE - Leggendo il tuo libro mi sembra di capire che il suicidio sia visto non come una patologia sociale bensì come un diritto. In altri termini, mi sembra che tra le righe traspaia l’idea che un uomo istruito e nel pieno possesso delle sua facoltà mentali abbia il diritto di poter decidere il momento della propria morte; ovvero, come disse il grande illuminista Kant, di scegliere quando “uscire da una stanza piena di fumo”. DE MAIO - Io sono combattuto tra due diversi stati d’animo: come medico, devo difendere la vita a tutti i costi, come fai anche tu quotidianamente con i tuoi piccoli pazienti, e quindi stigmatizzare il suicidio; come uomo libero, come laico, ritengo che a qualsiasi uomo, se in possesso delle proprie facoltà mentali e avendo delle buone ragioni per farlo, non possa essere negato il diritto al suicidio: un po’ come affermavano gli stoici quando dicevano “che è lecito morire alla persona a cui non piace la vita”. VITALE - Da queste affermazioni è lecito dedurre che tu hai una posizione, se non proprio favorevole alla liberalizzazione del suicidio assistito, quantomeno molto tollerante nei riguardi di questo doloroso aiuto fornito a chi non sia più in grado di compiere l’ultimo gesto da solo? DE MAIO - Certamente, soprattutto riguardo al suicidio assistito delle persone gravemente sofferenti, come quelle afflitte dallo spaventoso dolore di alcuni stati terminali di tumore. VITALE - Quindi la tua posizione di studioso, di uomo di cultura, di uomo libero e libero pensatore, non quella di medico legato all’obbligo deontologico di conservare la vita finché è possibile, è sovrapponibile a quella assunta da Montanelli. DE MAIO - Proprio così. Con Indro abbiamo discusso a lungo di questi problemi, trovandoci in perfetta sintonia; anche se a volte ci sono delle situazioni che ci mettono in grandissimo imbarazzo. Ricordo il caso di una mia assistente che, dopo una serie di interventi operatori per un tumore maligno alla laringe, ricoveratasi ormai in fase terminale nel mio reparto di psichiatria per cure palliative, mi fece giurare che avrei interrotto qualsiasi terapia quando avessi avuto la certezza di una sua imminente morte. Adempiuto alla promessa, miracolosamente risvegliandosi da uno stato comatoso, mi guardò con gli occhi atterriti e mi disse: “Professore, mi hai abbandonato, non mi fai più nessuna cura?”. Questo caso deve fare riflettere molto, anzi moltissimo: in punto di morte non tutti sono in grado di sostenere fino in fondo la pregressa decisione di non far più nulla per vivere. VITALE - Ma questo è un caso più umano che altro: non si tratta di suicidio assistito né tantomeno di eutanasia, è un caso di sospensione terapeutica. Questo astenersi da terapie ormai inutili, dopo la condanna dell’accanimento terapeutico, è accettato anche dalla Chiesa Cattolica. DE MAIO - Certo, ma comunque rimane esemplare di come il malato possa cambiare idea: in ogni caso dev’essere sempre rispettata la sua volontà, quando espressa liberamente e in possesso di facoltà mentali integre, qualunque essa sia. * * * Dopo aver parlato nella rima parte dell’intervista, oltre che delle sue origini e della scomparsa moglie, il soprano Anna Maria Rovere, anche delle sue ultime produzioni culturali, “Imitando Didone”; e dopo esserci addentrati nel dibattito su eutanasia e suicidio assistito; analizzeremo lo stato dell’assistenza ai malati mentali in Italia, concludendo con una breve digressione storica sull’Islam. Quello dell’assistenza al malato mentale cronico, infati, è un problema che tocca da vicino molte famiglie che, prima dell’approvazione della legge Basaglia sull’abolizione dell’istituto manicomiale, avevano, nel bene e nel male, un punto di riferimento fisso nel manicomio. A Reggio, situato nel rione di Modena, vicino il Seminario Arcivescovile, il vecchio manicomio è stato demolito per far sorgere al suo posto strutture che stanno portando lustro e prosperità alla città. Tralasciando il beneficio urbanistico ed economico, oltre che sociale in senso lato, è indubbio che con la legge Basaglia tanti problemi, lungi dall’essere risolti, sono stati solo trasferiti su di un piano diverso: a farne le spese sono stati soprattutto i familiari dei malati mentali non recuperabili che si sono trovati a dover far fronte a situazioni assistenziali ben al di sopra delle loro possibilità a competenze. Pur eticamente ineccepibile, la chiusura dei manicomi ha determinato squilibri sociali che con un’opportuna preventiva preparazione si sarebbero forse potuti evitare: posto che non è ipotizzabile un ritorno al passato, ci coglie il rammarico che non si è saputo (o voluto) ottimizzare sul campo le grandi potenzialità etiche di una riforma che vedeva il malato mentale come un soggetto portatore di diritti. L’impressione che si ha è quella di un pasticcio all’italiana: latitanza del pubblico e briglie sciolte per i corsari della medicina con pochi o addirittura assenti controlli sui piccoli lager privati. * * * LA LEGGE BASAGLIA VITALE - Come vedi oggi in Italia e nel suo Meridione, con l’occhio privilegiato di chi conosce bene la realtà milanese, la liberalizzazione, non so se sia corretto chiamarla così, dell’assistenza psichiatrica dopo la chiusura dei manicomi avvenuta con la riforma Basaglia? DE MAIO - Inizialmente ero favorevole, anche se la situazione milanese non era disastrata: nel vecchio ospedale psichiatrico, titolato al filantropo milanese Paolo Pini, e gestito dall’amministrazione provinciale, dai 2500 posti letto originari si era passati a 600, costruendo un modello di assistenza tanto imitato da essere costantemente meta di delegazioni di altri istituti. In questo istituto in cui mi sono formato come psichiatra, pur non sentendosi l’urgenza della riforma, la si percepiva indispensabile per le condizioni degli altri istituti italiani, soprattutto in quelli del centro-sud. La riforma, voluta da una parte ben precisa e politicamente orientata, io personalmente l’ho accolta con favore critico: i “non allineati”, come il sottoscritto, si rendevano conto della presenza di lacune e incongruenze, sia di tipo ideologico che cinico. In quel periodo si pensava che il paziente cronico non esistesse e che fosse mera conseguenza della sua permanenza in manicomio, il che non era assolutamente vero. Sono i progressi della medicina che creano i pazienti cronici: prima i pazienti non lo diventavano perché morivano prima. Basta pensare ai diabetici, ai cirrotici, alle malattie infiammatorie dell’apparato respiratorio, alle malattie neurologiche: non arrivavano alla terza età, mentre oggi ci arrivano ma da malati cronici. VITALE - Questi malati mentali cronici, le cui famiglie non possono più usufruire dell’alloggio e dell’assistenza in una struttura manicomiale pubblica, che fine fanno? DE MAIO - Ci sono due alternative di ricovero: in strutture convenzionate e non. Nelle prime la retta, discretamente bassa, è a carico delle Asl e delle regioni; nelle seconde il costo è notevolmente superiore. L’Asl milanese da cui dipendevo spendeva ogni anno un miliardo e ottocento milioni solo per il ricovero nelle strutture non convenzionate. VITALE - Spiegati meglio: struttura non convenzionata non vuol dire che l’onere assistenziale non è a carico del’Asl? DE MAIO - Non esattamente: pagava l’Asl, che poi si rifaceva sulle famiglie a seconda della loro disponibilità economica. VITALE - Quindi, come tu dici, vi erano strutture convenzionate che percepivano 70.000 lire al giorno circa per ogni degente e strutture non convenzionate alle quali la Regione corrispondeva 200/300.000 lire al giorno? DE MAIO - Esattamente, salvo poi il rifarsi nei confronti delle famiglie: in base al loro reddito vi era una quota di partecipazione alla spesa. Ma il dato veramente scandaloso non era questo. In quanto strutture private, sia le convenzionate che le altre non erano tenute al ricovero dei casi urgenti, dei casi clamorosi, di tutta quei malati che venivano ricoverati coattivamente: il trattamento sanitario obbligatorio, il famoso TSO, da queste strutture non era accettato. DUE PESI E DUE MISURE VITALE - Quindi il pazzo, quando faceva veramente il pazzo, doveva andare in ospedale. Mentre quando non faceva il pazzo e, soprattutto, quando non dava sostanzialmente fastidio poteva essere ospitato nelle strutture private non convenzionate a 300.000 lire al giorno. DE MAIO - Esattamente, con l’aggravante che se il pazzo tranquillo diventava agitato veniva immediatamente trasferito nelle strutture pubbliche. Per i pazienti violenti recidivi si determinava quasi una specie di rifiuto all’assistenza. Ho tentato di coinvolgere all’uopo anche la Procura della Repubblica, ma mi è stato sempre risposto che non potevano intervenire in quanto la legge espressamente affermava che questo tipo di patologie andavano ricoverate nelle strutture pubbliche. VITALE - Ricapitolando questa esauriente trance di chiacchierata, si può dire che, posto che il malato acuto, per intenderci il pazzo veramente pazzo, nessuno lo vuole e viene ricoverato in un ospedale pubblico, il manicomio per malati mentali cronici, formalmente chiuso come istituzione pubblica, è stato di fatto parcellizzato e privatizzato, con controlli difficilissimi da fare (e i fatti di cronaca di cui periodicamente veniamo a conoscenza ci danno tristemente ragione). Il pazzo, insomma, è diventato una specie di Pozzo di San Patrizio. Chi attinge a questo pozzo? DE MAIO - In questi ultimi anni sono sorte ad hoc una selva di strutture private. VITALE - Comunque, per le famiglie che hanno malati mentali in casa la situazione continua a non essere delle più felici. DE MAIO - Al Sud stanno certamente peggio che al Nord. Quì, infatti, seppur con grande difficoltà, si sono creati i famosi CRT, i centri di terapia e riabilitazione, strutture intermedie che si occupano dei pazienti con patologia lieve non necessitante di degenza in istituto o di ricovero forzato in ospedale. VITALE - Anche se c’è da dire che al Sud la rete della solidarietà sociale familistica sopperisce a questa carenza di strutture: il pazzo che non dà fastidio, il pazzo non pazzo per intenderci, viene tenuto più facilmente in casa. DE MAIO –E’ la via da seguire: quando il prof. Sirchia, oggi ministro alla Sanità, era assessore ai servizi sociali a Milano, aveva ipotizzato incentivi e aiuti economici alle famiglie che avessero deciso di tenersi in casa il parente malato mentale. Il costo economico e sociale sarebbe stato certamente inferiore. MEDICINA E ISLAM VITALE - In un dibattito di qualche tempo fa ho scoperto che tu sei uno studioso dell’Islam. Rimandando ad altra occasione di incontro l’approfondimento sull’attualissimo tema dei rapporti tra Cristianità e Islam, fammi un rapido flash sul tuo saggio sulla medicina islamica che verrà pubblicato sulla rivista “La medicina nei secoli”. DE MAIO - Si tratta di un lavoro sull’assistenza e le cure ospedaliere nell’Islam medioevale, quello a cavallo del 900 d.C. VITALE - Certamente quello è stato il periodo di massimo splendore ed espansione per l’Islam, un periodo in cui l’Islam era un faro di civiltà. Tra il 600 e il 1200 quella islamica era La Civiltà. DE MAIO - I Fatimidi sono stati per circa cinque secoli in Spagna e hanno creato ciò che è sotto gli occhi di tutti a Cordoba o a Siviglia o a Granada. Erano tanto tolleranti che si era creata una nuova tipologia di spagnoli a sangue misto, i Moriscos. In Sicilia gli arabi li abbiamo avuti per due secoli, e non hanno creato che civiltà e splendore. Come potenza econonico-militare i mussulmani sono stati all’avanguardia bel oltre il 1200: Vienna è stata cinta d’assedio per la seconda volta nel 1780. La civiltà mussulmana si è evidenziata, oltre che nella filosofia e nella letteratura, basta pensare ai testi greci antichi trascritti, anche nelle scienze matematiche, i nostri sono numeri arabi, e mediche. VITALE - A tal proposito, vorrei che mi inviassi il testo del tuo articolo sull’ assistenza e le cure ospedaliere nell’Islam medioevale: ne vorrei trarre qualche spunto per la rivista “Puer” di cui sono direttore. DE MAIO - Leggerai che già nel 900 d.C., un migliaio di anni prima della legge Basaglia, a Damasco e all’ospedale Tulum del Cairo c’erano già le sezioni per i malati di mente negli ospedali generali.