In una visione laica della vita, quando si arriva a giudicare che la medicina non è più in grado di migliorare il proprio stato, e che pertanto è intollerabile prolungare ulteriormente l’esistenza, il ricorso all’eutanasia o al suicidio assistito, se praticati in un contesto di precise regole e controlli validi, costituiscono un’alta espressione di libertà individuale, oggi negata ope legis. Naturalmente solo l’essere umano in completo possesso delle proprie facoltà mentali, e quindi pienamente cosciente, può essere responsabile delle proprie scelte e pertanto decidere se la propria vita è ancora degna di essere vissuta: nessuno, né tantomeno la società o la medicina o la religione, può imporre l’obbedienza a valori non condivisi.
Ciò da un punto di vista laico “illuministico”. E da uno religioso-pastorale? La questione è stata pragmaticamente affrontata dalla Chiesa Valdese il cui Sinodo ha approvato un documento, pubblicato sulla rivista Protestantesimo, elaborato dal gruppo di studio sull’eutanasia. Proverò a riassumerne le conclusioni.
* * *
Se l’etica medica può giustificare il suo diniego all’eutanasia su valutazioni di ordine genetico o antropologico, da un punto di vista pastorale è possibile un’analoga giustificazione?
Nell’ambito dell’accompagnamento pastorale, una buona assistenza spirituale crea una profonda relazione con lo stato di sofferenza del malato: è questa che dovrebbe far accogliere, pur in piena conflittualità di principi, la richiesta di interrompere la vita col suicidio assistito.
Non si tratta di dare giustificazioni o legittimazioni a un atto che si compie per difendere il “diritto alla vita” di chi chiede di poter morire; quanto piuttosto di prendere atto che non vi sono giustificazioni etiche e pastorali dirimenti per opporre al malato un rifiuto di principio.
Non si può sfuggire alla domanda che il malato rivolge con insistenza e che il pastore percepisce in tutta la sua gravità.
* * *
Fino ad oggi in ambito cristiano, a parte alcune eccezioni, è prevalso un giudizio negativo nei confronti dell’eutanasia attiva: fondandosi sulla Bibbia e sulla morale cristiana, questo deriva dall’affermazione che solo Dio può dare e togliere la vita. Da ciò deriva la sua “sacralità” e intangibilità: per i cattolici intervenire equivarrebbe a “prendere il posto di Dio”. Ma Gli si sottrae veramente parte della sua Signoria sul mondo accogliendo la richiesta di un moribondo ad anticipare solo di un po’ la sua dipartita?
L’etica cristiana deve fornire risposte credibili. La sofferenza e il dolore non producono salvezza: sono solo dimensioni dell’esistenza umana che, non avendo in sé nulla di positivo, pur dovendole accettare, vanno comunque combattute.
Posto che l’uomo, ponendosi nuovi interrogativi sulla vita e sulla morte, si avvicina alla fede nei tempi della sofferenza e del dolore, non significa che vi sia un legame inscindibile tra questi tempi e l’elevazione dello spirito: superato un certo limite, il dolore annulla le facoltà intellettuali e fa sì che si riesca a desiderare soltanto di smettere di soffrire.
* * *
Nell’ambito pastorale si parla molto di rispetto della spiritualità, che sembra però arrestarsi improvvisamente di fronte alla richiesta del malato inguaribile che chiede di poter morire: è come se questa domanda provenga da un mondo cui non si appartiene.
Cosa impedisce di leggere anche in questa domanda un segno di spiritualità viva e cosciente? Con quale autorità spirituale si può contrastare la libertà e responsabilità di chi vuol decidere il tempo della propria morte quando il vivere per lui ormai non è che è un’umiliazione quotidiana senza speranza? Quale fonte d’autorità può costringere una persona inguaribile a continuare a vivere una vita di morte? Da quale parte sta Dio? Dalla parte del non senso del dolore acuto e inguaribile o dalla parte di un umano desiderio di morire?
In una tale situazione, accogliendo una domanda di morte all’interno di un lungo processo di cura e relazioni, non si commette un crimine e non si viola alcuna legge divina.