Quando, durante la prima guerra mondiale, chiesero a Lytton Strachey perché non fosse andato anche lui a combattere per la civiltà, egli rispose che era proprio lui la civiltà per la quale si stava combattendo.
Basta questo aneddoto, riportato nella biografia di John Maynard Keynes curata da Robert Skidelsky (John Maynard Keynes. L’economista come salvatore: 1920/1937 – Bollati Boringhieri 1996), per capire il clima che si respirava agli inizi del Novecento in alcuni ambienti universitari della Gran Bretagna e in particolare in quel “gruppo di Bloonsburry” (cui partecipava anche Bertrand Russell) la cui vita è descritta, in un romanzo di Antony Powel citato nella stessa biografia, come un insieme di “voci squillanti che alludono a valori assoluti, stati razionali della mente, integrità intellettuale, rapporti personali corretti, forme significative”.
Una tra le più alte e vibranti di quelle “voci squillanti” fu Keynes, a soli 38 anni presidente della Società degli Apostoli di Cambridge, il più selettivo circolo universitario del Regno Unito: il suo nome ha acquisito la massima risonanza dopo la seconda guerra mondiale, con la Conferenza di Bretton Woods, e il suo pensiero influito come nessun altro sulla formulazione delle teorie monetarie.
Nel suo Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, frutto delle riflessioni che seguirono alla grande crisi del 1929, l’economista inglese affonda un attacco diretto e in equivoco contro quei capisaldi della teoria economica “classica” di cui non aveva ancora riconosciuto chiaramente la debolezza e infondatezza del suo precedente Trattato della moneta, frutto delle minori e transitorie bufere monetarie del primo dopoguerra.
Avverso il principio allora imperante – così sintetizzabile: un sistema capitalistico costituito da una rete di mercati integrati, se non influenzato negativamente da disposizioni centrali o da pressioni sindacali agenti sui prezzi al consumo e sul costo del lavoro , è in grado di produrre una piena occupazione – Keines affermò che questa piena occupazione la si sarebbe potuta raggiungere solo a patto che il potere centrale non si limitasse a dettare le regole del gioco bensì operasse direttamente sul mercato con decisi e sostanziali interventi correttivi.
Per il raffinato intellettuale che “passò gran parte della sua vita a difendere quell’idea di civiltà rappresentata da Strachey” (Robert Halibroner, L’Apostolo Keynes in La Rivista dei Libri 2/1997), la via del paradosso non poteva non essere rappresentata tra gli iter dimostrativi: cosa che fece per spigare meglio la sua teoria per la quale, al limite, pur di far uscire l’economia da una fase congiunturale, non era importante come il denaro pubblico venisse speso purché fosse comunque speso.
Il paradosso è presente nella Teoria Generale. “Se il tesoro si mettesse a riempire di biglietti di banca vecchie bottiglie e le sotterrasse a una profondità adatta in miniere di carbone abbandonate; se queste fossero poi riempite fino alla superficie con rifiuti di città e si lasciasse all’iniziativa privata, secondo i ben noti principi del lasciar fare, lo scavar fuori di nuovo i biglietti: non dovrebbe più esserci disoccupazione e, tenendo conto degli effetti secondari, il reddito reale e anche la ricchezza capitale della società diventerebbero probabilmente assai maggiori. Effettivamente sarebbe più sensato costruire case o simili: ma se per far ciò si incontrassero difficoltà politiche o pratiche, quanto sopra sarebbe comunque meglio di niente”.
Al di là dell’eleganza formale che ne esalta la resa, è lo spirito del paradosso che va recepito: per far uscire l’economia da una fase congiunturale, non è importante come il denaro pubblico venga speso purché sia comunque speso.