Venerdì, 05 Settembre 2008 13:22

CARTOLINA DAL PARCO, QUELLO VERO

 

Con mia moglie incontriamo il colonnello Angelo Ciancia a Gambarie in un giorno di agosto nelle prime ore del mattino. È su un Land Rover Defender; ci invita a salire: “Se permettete, vi offrirò il caffé nel mio bar preferito”. Ci inerpichiamo su per Montalto e, superata l’ex base americana, in località Materazzelli lasciamo la provinciale per Polsi e, rimossa la barra di protezione, ci inoltriamo su uno sterrato. Dopo circa un chilometro un cancello, con libero accesso pedonale, impedisce l’entrata ai mezzi non autorizzati. Ci addentriamo per svariati chilometri nel cuore del Parco d’Aspromonte fino a quando la fitta vegetazione non si apre: siamo al rifugio Canovai, che prende il nome dall’antico proprietario, uno del nord di nobile schiatta.

 

L’antico caseggiato è ristrutturato nel rispetto dello spirito dei luoghi e la natura aspromontana è come d’incanto ingentilita da un’antropizzazione illuminata, razionale e rispettosa, che valorizza il bello e mitiga il selvaggio. Tutto è a posto, ordinato e pulito: sembra di essere entrati in una cartolina pubblicitaria delle alpi svizzere e invece siamo nel cuore dell’Aspromonte. Un paio di forestali lavorano ai vivai per la tutela della biodiversità: predispongono nel terreno contenitori per la raccolta dell’inseminazione naturale. Il torrente Ferraina taglia la piccola radura circondata da querce secolari, faggi, abeti, castagni e da altra flora arborea tipica dell’Aspromonte. Un ponte in pietra attraversa il Ferraina. “Sembra antico, che ci sia sempre stato, ma lo abbiamo messo su lo scorso anno”. Dalla parte opposta un corridoio a semiluna, ribassato rispetto all’argine, mette in contatto il letto del torrente a monte e valle del ponte: “In caso di piena, frequente al disgelo di primavera o dopo violenti acquazzoni, funziona come un bypass arterioso: vi fluisce parte dell’acqua sì che si riduce l’intensità dell’urto contro il ponte di quella che continua a scorrere nell’alveo naturale”. Piccoli invasi artificiali, indistinguibili dalle pozze naturali, diminuiscono la velocità della acque del Ferraina: le trote vi guizzano numerose e indisturbate.

 

Procediamo immergendoci nuovamente nell’ambiente tipico aspromontano: selvaggio e inospitale, appena sfiorato dalla presenza umana. Più volte scorgiamo evidenti tracce del recente passaggio di cinghiali. La Land procede a stento. Dopo circa un chilometro entriamo in una vasta pineta e incontriamo un gruppo di forestali. Queste pinete, dalla crescita relativamente veloce, sono state piantate tra il 1957 e il 1967 per contenere quello che il meridionalista Agostino Fortunato aveva chiamato “sfasciume pendulo”: i rami e il fogliame mitigano l’impatto sul suolo dei rovesci di acqua; le radici evitano gli smottamenti del terreno. Queste pinete vanno periodicamente curate e assistite. I forestali del Corpo stanno tagliando tutti i rami bassi fino all’altezza di parecchi metri dal suolo: in caso di incendio boschivo, il fuoco del sottobosco non sarà sufficiente a incendiare il tronco né a raggiungere i rami in alto, passando avanti senza danneggiare i pini.

 

Un piccolo castagno, solo un tenero fuscello, è circondato da una palizzata circolare: è protetto come un cucciolo. A un paio di metri un covile, il caratteristico rifugio dei pastori d’Aspromonte: è uno dei pochi originali rimasti. Poco più il là una fossa triangolare nel terreno: è il segno che ve ne era un altro. Il covile viene protetto come un pezzo da museo, simbolo della civiltà pastorale montana. Ed ecco arrivare il caffé promesso: in una moca piccola con bicchierini di carta, è caldo e già zuccherato. Nel bar preferito da Angelo Ciancia il servizio è ottimo, e la compagnia anche: gente solida, dall’animo robusto, con poche ma rocciose idee. Ci si ferma un po’ a chiacchierare.

 

Salutiamo e ci dirigiamo verso l’ombelico dell’Aspromonte: Croce di Dio, uno spuntone roccioso e spoglio di vegetazione. Siamo ad alcune centinaia di metri sopra le cascate di Forgiarelle, formate dal torrente Ferraina dopo che ha attraversato la radura di Canovai: si scorgono i balzi e la vasca. A sinistra, verso lo Ionio che si intravede in lontananza, i piani di Bova; a destra il massiccio di Montalto: col binocolo si vede il Crocefisso alla sua cima. Siamo al centro del Parco e si ha voglia di rimanervi.

Di ritorno a Canovai ci attende una sorpresa. Ci vengono offerte delle ciliege, appena colte da due giganteschi ciliegi dai rami ricurvi sotto il peso dei frutti. Tutte della stessa grandezza, piccole e lisce, sono di due tipi: uno di color rosa con sfumature bianche, dal sapore delicato con un intenso bouquet; l’altro di colore rosso scuro, quasi nero, dal sapore di amarena con un retrogusto che attenua il dolce. Odori e sapori ormai introvabili. Si scorge un cartello con una scritta incisa “Servizio per la tutela della biodiversità. Vivaio per la riproduzione della quercia farnetto”. Querce secolari, alcune di 400/500 anni, macchie scure tra il verde delle abetaie, delle pinete, delle faggete, dei castagneti: Dei pagani della foresta, “Custodi d’Aspromonte”, numi tutelari dalla troppo lenta riproduzione, rischiano di scomparire. Unica loro chance è l’antica saggezza dei luoghi personificata dal Corpo Forestale.

Torniamo in paese: nel sabba edificatorio, nel delirio cementizio; tra pinete devastate e faggi secolari abbattuti per fare parcheggi; tra pali elettrici in stile autostradale e ringhiere di ferro arrugginito; tra selciati sconnessi e invadenti asfalti; tra le ammiccanti insegne di ristoranti e alberghi, tristemente attivi per meno di un mese all’anno; tra gli addomi penduli e le traballanti natiche dei gitanti domenicali. Ritroviamo il cicaleccio delle chiacchiere da cortile, travestite da chiacchiere da bar, sui motivi del mancato decollo turistico di Gambarie. In mancanza di idee, si avesse almeno il buon gusto del silenzio.

 

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