Di Eluana e della sua dolorosa storia hanno abbondantemente parlato i media nazionali e, more solito, si è fatta la consueta confusione tra cure mediche e accanimento terapeutico, tra sospensione d’assistenza ed eutanasia. Affermato finalmente il diritto alla sospensione terapeutica, continua comunque a essere negato il diritto a una dignitosa e attiva uscita da un’esistenza che si ritiene non più degna di essere vissuta.
Penso di fare cosa utile, nella qualità di dirigente di LiberaUscita – www.liberauscita.it – (associazione laica e apartitica per la legalizzazione del testamento biologico e la depenalizzazione dell’eutanasia attiva nella nostra città), a porre alcune considerazioni in merito ai rapporti tra spirito religioso e concetto di eutanasia.
In una visione laica della vita, quando si arriva a giudicare che la medicina non è più in grado di migliorare il proprio stato, e che pertanto è intollerabile prolungare ulteriormente l’esistenza, il ricorso all’eutanasia o al suicidio assistito, se praticati in un contesto di precise regole e controlli validi, costituiscono un’alta espressione di libertà individuale, oggi negata ope legis.
Naturalmente solo l’essere umano in completo possesso delle proprie facoltà mentali, e quindi pienamente cosciente, può essere responsabile delle proprie scelte e pertanto decidere se la propria vita è ancora degna di essere vissuta: nessuno, né tantomeno la società o la medicina o la religione, può imporre l’obbedienza a valori non condivisi.
Ciò da un punto di vista laico “illuministico”. E da uno religioso-pastorale? La questione è stata pragmaticamente affrontata dalla Chiesa Valdese il cui Sinodo ha approvato un documento, pubblicato sulla rivista Protestantesimo, elaborato dal gruppo di studio sull’eutanasia. Proverò a riassumerne le conclusioni.
Se l’etica medica può giustificare il suo diniego all’eutanasia su valutazioni di ordine genetico o antropologico, da un punto di vista pastorale è possibile un’analoga giustificazione?
Nell’ambito dell’accompagnamento pastorale, una buona assistenza spirituale crea una profonda relazione con lo stato di sofferenza del malato: è questa che dovrebbe far accogliere, pur in piena conflittualità di principi, la richiesta di interrompere la vita col suicidio assistito.
Non si tratta di dare giustificazioni o legittimazioni a un atto che si compie per difendere il “diritto alla vita” di chi chiede di poter morire; quanto piuttosto di prendere atto che non vi sono giustificazioni etiche e pastorali dirimenti per opporre al malato un rifiuto di principio.
Non si può sfuggire alla domanda che il malato rivolge con insistenza e che il pastore percepisce in tutta la sua gravità.