Martedì, 27 Maggio 2008 11:51

REGGIO CITTA' PORTUALE?

 

* Reggio, pur avendo sempre avuto un suo porto, non è stata mai una città portuale: l’infrastruttura marittima, se non fosse per il pendolarismo studentesco sullo Stretto, sarebbe stata quasi un corpo avulso da una città che, “difesa” dal mare prima dalle mura e poi dalla linea ferrata, storicamente non si è mai riconosciuta come marittima. Il tessuto urbano ha trovato nella fiumara dell’Annunziata un limite che gli ha impedito il convergente progressivo digradare di strade e stradine verso le banchine portuali; l’unica zona della città che potrebbe definirsi portuale, il quartiere Candeloro, è oltre il porto, ancor più staccata e distante da una città che in passato non si è nemmeno mai accorta di avere, a seconda dei punti di vita, un problema socio-urbanistico o una possibile risorsa; oltre l’Annunziata, a nord, dove il quartiere di Santa Caterina corre parallelo alla linea della banchina di levante, è stata la linea ferrata ha impedire l’osmosi porto-città: insomma, prescindendo dall’olografia di stampe e cartoline, se Reggio non avesse avuto il porto la sua vita non sarebbe stata diversa.

 

* Oggi, quando una mutata sensibilità sta facendo riappropriare la città e i suoi abitanti del rapporto con il loro mare, quando nelle linee di politica urbanistica è presente il prolungamento di viale Genoese Zerbi, la riconversione del rione Candeloro e la trasformazione in senso turistico del porto reggino, una miope burocrazia impedisce il libero accesso ai veicoli a motore all’ambito portuale e alla nuova stazione marittima. Le balbettanti motivazioni fornite dalla Capitaneria di porto, tese a giustificare la sua ostinata e anelastica fermezza nell’opporsi all’apertura dei cancelli lato nord, non possono convincere: non hanno una base logica, non forniscono elementi validi, non hanno un senso intellegibile e, last but not least, sono un insulto all’attuale vocazione della città, un’urente umiliazione che fa ancor più male perché viene sottratto qualcosa che, dopo un lunghissimo oblio, si è riscoperto come parte naturale della città. Reggio, città limite, di frontiera, che se non insistesse la Sicilia lì davanti sarebbe stata un munito avamposto militare europeo nel Mediterraneo, nonostante la sua storica “difesa” dal mare, oggi non può non definirsi che come di mare e turistico-portuale. Espropriarla del suo libero accesso alle banchine è, quindi, molto più di un pur miope atto amministrativo: è mutilare psicologicamente la città, violarla nell’intimità di un suo progetto, di un suo sogno.

 

* Le pietre di cui è fatta una città, le sue strade, i suoi palazzi, le sue piazze, i suoi monumenti, le sue infrastrutture, sono principio di senso per i suoi abitanti e principio di intelligibilità per il forestiero. Il vulnus della sottrazione dell’accesso al porto è, quindi, anche identitario: si guasta l’immagine che la città ha di se stessa e che offre al forestiero; si scheggia lo specchio nel quale essa si guarda e si deforma la lente con cui viene osservata dall’esterno; in ultima analisi, si tarpa la sua ambizione a realizzare e vivere i suoi sogni.

 

* Il dramma di Reggio, fino alla sua Primavera, è stato nel non credere più nei sogni dopo le umiliazioni subite nel 1970 e 1971: i cancelli chiusi, come rappresentazione simbolica, fanno parte di un immaginario onirico castrante le ambizioni di libertà. Non si può consentire che ai giovani reggini venga dato, in maniera sublimare, il kafkiano messaggio della succube impotenza dell’uomo verso la burocrazia.

 
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