Don Chisciotte / Vitale, spontaneamente determinatosi verso un ideale consono alla sua natura, è la quintessenza del soggettivismo, assicurato com’è del vero dalla coorte di sentimenti scaturiti dall’immagine prima, che egli stesso si dà, di fatti e circostanze: tutto è frutto della sua fedele devozione alla bellezza di una realtà preinterpretata, affascinante e piena di poesia, fantastica, quasi “un magico sipario sospeso dinanzi al mondo concreto” (M. Kundera) che egli non vede e di cui non percepisce l’esistenza. E come l’hidalgo, a motivo e onore delle sue prodezze, continua ad amare la sua nobile dama Dulcinea del Toboso, che nella realtà è la robusta contadina Aldonza Lorenzo, allo stesso modo Enzo Vitale ama la sua città. Don Cisciotte, deriso per questo amore, e per le mirabili alte imprese che gli sta dedicando, perfino dal suo scudiero Sancho, risponde con una dichiarazione tra le più commoventi mai prodotte in letteratura: egli sa perfettamente chi è in realtà Dulcinea, ma la ama lo stesso, perché è proprio questo amore a trasformare ai suoi occhi la contadina Aldonza nella “più illustre principessa del mondo”. Come il personaggio di Cervantes, Enzo Vitale, pur sapendo perfettamente che la sua città natale in realtà non è una “donna di province” di dantesca memoria, l’ama lo stesso: ed è proprio questo amore che ai suoi occhi trasforma Reggio / Dulcinea nella “più illustre principessa del mondo”. Enzo Vitale, dunque, è lucidamente conscio sia della sua miopia esistenziale che del suo soggettivismo e, per porvi rimedio, è solito porre le sue idee in quello che Karl Popper ha definito “mondo 3”. Così facendo, distaccandosi da esse, tra l’altro le può lui stesso confutare e “falsificare” senza ricavarne nocumento alcuno. Geniale stratagemma di una mente libera e incondizionabile che vuole rimanere tale o sottile espediente per non farsi stringere alle corde nell’agone dialettico? Lo deciderà il lettore.
Antonino Monorchio