Martedì, 10 Gennaio 2012 07:25

ELOGIO DELLA FOLLIA

Lo sguardo dell'autista dell'Atam, preda di inesorabile noia, è tristemente perso nel vuoto: non c'è proprio molto da stare allegri né tantomeno attenti nel trasportare solo se stessi per innumeri volte avanti e indietro tra il Tempietto e il Cippo.

Comunque, pur rischiando depressione e alienazione, l'autista è pagato per ottemperare alle disposizioni e queste recitano che la navetta debba fare il percorso tra il neonato parcheggio e l'Arena Franco ogni tot minuti anche se vuota. Disposizione apparentemente folle ma che risponde all'esigenza di dare un senso a un luogo che è stato concepito male e gestito ancora peggio.

Tra i falsi miti trasmessici da un'urbanistica troppo ideologizzata, infatti, vi è quello che riguarda la bellezza e utilità dei parchi urbani. Tanto per cominciare, l'idea che questi siano i "polmoni della città" è una bufala colossale. Basti pensare che: per assorbire l'anidride carbonica prodotta dalla respirazione di quattro persone occorre mezzo ettaro di bosco; è la circolazione di masse d'aria ciò che determina l'allontanamento della CO2 (nello specifico del nostro caso, non è proprio questa che manca in città). È inoltre discutibile che la presenza di un parco aumenti la vivibilità dei territori: i parchi, infatti, sono luoghi mutevoli che cambiano in relazione alla frequentazione da parte delle famiglie, alla presenza nel loro contesto di piccole attività commerciali, alla cura che viene loro riservata, all'intensità del degrado e all'eventuale loro uso improprio. Come, infine, è anche dubitabile che i parchi facciano sempre godere la vista: la loro bellezza molto spesso è inversamente proporzionale alla fruibilità, nel senso che più sono curati meno sono utilizzabili per usi quotidiani, come ad esempio il passeggiare i cani.

Insomma un parco può essere una risorsa come può diventare un problema: tutto dipende non tanto da come lo si fa ma da dove lo si posiziona, da come lo si usa, dai servizi in esso presenti, dall'ambiente civico che lo circonda, dalla fauna umana che lo frequenta. Nel nostro caso va a pennello la domanda che viene posta dall'urbanista Jane Jacobs nel suo "The Death and Life of Great American Cities" sul perché "spesso manchi la gente dove vi sono parchi e questa brulichi là dove i parchi non vi sono".

Il Parco del Tempietto, infatti, frutto di idee urbanistiche piovute dall'alto, dal difficile accesso, senza servizi, non controllabile, sostanzialmente avulso dal contesto urbano e senza interazione con esso, non utilizzabile se non sporadicamente per fiere o mostre, troppo grande per essere un giardinetto ben curato e troppo piccolo per essere un parco metropolitano in grado di ospitare infrastrutture di una certa importanza, sporco e degradato, ricettacolo di varia umanità e pericoloso da frequentare dopo il tramonto, era il paradigma di quanto detto prima: da potenziale risorsa era divenuto un problema.

Ancora la Jacobs: "I parchi, come i marciapiedi o le piazze, non sono astrazioni né sono automaticamente dotati di qualità positive e influssi benefici: acquistano un senso solo se visti nei loro usi pratici e tangibili."
Se dare utile senso a uno spazio vuoto e inutilizzato, facendoci un parcheggio, ha come contropartita la folle disposizione sui servizi navetta, che comunque può essere sempre rivista, questa follia va comunque elogiata: è un prezzo tutto sommato modesto che si paga a fronte dell'acquisizione da parte della cittadinanza di uno spazio sostanzialmente perso.

 

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