Basterebbe questa mortificante attesa per definire il degrado funzionale di alcuni dei nostri servizi sanitari territoriali, la cui inconsistenza qualitativa a volte è direttamente proporzionale alla pletora di personale.
Ma il peggio deve ancora arrivare e si annuncia sulla formale convocazione per la visita collegiale. In questa, oltre a una serie di inutili quanto vessatorie richieste (certificazioni e documentazioni da esibire sia in originale che in due copie fotostatiche, rigorosamente certificate come conformi all'originale, ecc. ), viene assegnata una sigla - ad esempio B/15 - con la quale il presunto invalido deve presentarsi a visita. Si raccomanda espressamente di non dare, durante tutto il procedimento sanitario, le proprie generalità perché si sarà identificati per sigla assegnata (la negazione dell'identità personale, come ben ci hanno insegnato le esperienze di reclusione coatta del Novecento, è il primo atto per mantenere l'ordine tra i sottomessi).
In ottica carceraria una scelta necessaria, visto che allo stesso orario è stato dato appuntamento ad una marea di invalidi il cui "ordine" è difficilmente gestibile se non con sistemi da lager: corridoi pullulanti di varia sofferente umanità, mutilata nella propria identità oltre che nel fisico disabile, le cui urla di protesta per l'attesa si mescolano ai lamenti di dolore.
L'attesa che si protrae genera bisogni, per soddisfare i quali occorre che il malato, privato dell'identità, si mortifichi ulteriormente: in locali fatiscenti con servizi luridi, sporchi anche di residui di escrementi e deiezioni corporali.
Ma non è tutto. Viene comunicato che, prima della visita medica, occorre fare un colloquio con l'assistente sociale: senza di questo non si è autorizzati ad accedere al cospetto dei sanitari della commissione. Il gruppo, secondo disposizione ricevuta, si trascina in un altro corridoio e si accampa dietro una porta chiusa che, viene detto, "verrà aperta, prima o poi". Ma la porta non si apre; e il tempo trascorre. Finalmente si vede avanzare, dall'estremità del corridoio vicino all'entrata, una persona che incede con tranquilla andatura da passeggio tenendo tra le dita della mano destra una sigaretta accesa (le regole carcerarie non valgono per i carcerieri). Sguardi di speranza seguono il suo lento pensoso incedere verso quella porta.
La vista dell'assembramento la coglie di sorpresa e si adombra: afferma di non poter effettuare i colloqui perché, infortunata alla mano destra - quella con cui destramente tiene la sigaretta -, non è in grado di redigere il referto di visita. A nulla vale l'offerta di un invalido a scrivere sotto dettatura; a nulla la constatazione che per battere su una tastiera di computer non è necessaria la piena funzionalità della mano. Tutto inutile: la persona è inflessibile e, sempre con la sigaretta accesa tra le dita della mano lesa, dopo aver ribadito che "il computer non c'è, il verbale va scritto a mano, ed io ho la mano destra invalida", a passo di carica si dirige verso - si presume - l'ufficio del dirigente. Ironia dei fatti: tra chi attende che il funzionario di mano invalida trovi un amanuense di supporto c'è una bidella in pensione con un moncherino al posto della mano e un signore cui mancano tre dita. Dopo mezz'ora circa ritorna con un impiegato che fungerà da scrivano: l'iter di visita collegiale può avere inizio.
Reggio Calabria, 08 gennaio 2010, uffici Asp di via Rosselli