“Noi siamo come nani seduti sulle spalle di giganti”. La fortunata metafora, riproposta più volte con sempre diverse sfumature di significato, come per esempio da Isacco Newton a proposito del fondamentale contributo della scienza del passato per la costituzione della sua teoria gravitazionale, da Giovanni di Salisbury nel suo Metalogicon viene attribuita a Bernardo di Chartres, cancelliere della cattedrale di Chartres dal 1119 al 1126: “Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti”. Mettendo in crisi il concetto stesso di “auctoritas”, non più esempio da seguire passivamente ma base da cui far partire la propria ricerca, il fondatore dell’umanismo chartrense afferma che l’uomo non deve rimanere immobile ma progredire e nel farlo, più che demolire per ricostruire, deve aggiungere il proprio contributo al già costruito.
Pur non sapendo se il sindaco Scopelliti abbia letto il Metalogicon di Giovanni di Salisbury o le opere di Bernardo di Chartres, siamo comunque certi che, almeno per quanto riguarda il programma di riassetto del water front reggino, si comporta come se le avesse lette e assimilate: riprendendo e facendo sua una vecchia idea, la adatta ai tempi aggiungendo qualcosa di nuovo. Stessa cosa aveva fatto il compianto sindaco Falcomatà.
Il primo nucleo dell’idea di cui stiamo parlando risale infatti al 1928, quando era podestà a Reggio il M.se Giuseppe Genoese Zerbi, compagno di corso e fraterno amico di Galeazzo Ciano. Ipotizzando la Grande Reggio, progetto fallito per la strenua opposizione del sindaco di Villa, erano tre gli interventi previsti per il fronte del mare nel 1928: 1) percorso sotterraneo della ferrovia; 2) interramento della stazione centrale; 3) costruzione di una metropolitana di superficie da Bocale a Villa.
I tempi non erano ancora maturi e si dovette attendere settanta anni per vedere parzialmente realizzate quelle intuizioni. Con Falcomatà si aggiungono altre componenti a quest’idea di modera città marittima, come quella della creazione di un parco urbano longitudinale nelle aree di prevista dismissione ferroviaria da vanno da Calamizzi a Torre Lupo. Con Scopelliti, che non rinnega la più recente eredità di Falcomatà, si integra il tutto con l’idea di trasformazione parziale del porto in senso turistico e con quella della costruzione di “edifici simbolo” alle estremità del lungomare.
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Ed è proprio a villa Genoese Zerbi, costruita dal fratello del citato podestà, che è stata ospitata due anni fa la mostra Metamorph: che ha stimolato la riflessione urbanistica dando accesso a un mondo dinamico di idee e progetti, che ha fatto vedere come si possa inventare senza distruggere il già fatto né offendere la natura, che ha fatto capire come sia cambiato l’uso e il significato dell’architettura.
L’antesignano di questa evoluzione è stato senza dubbio Frank Gehry col suo Guggenheim Museum a Bilbao. Completato nel 1997, con esso si inaugura l’architettura-spettacolo: da arte o scienza funzionale a dare un alloggio alle persone o una sede alle istituzioni, l’architettura diviene strumento per creare un simbolo, un’icona, una chiave di lettura di un luogo, un mezzo per meglio definire l’identità di una città o di una regione.
Come dicevamo, parte integrante di questa idea di waterfront, logico epilogo di un percorso ideale partito nel 1928, sono due edifici simbolo che rappresentino e siano quasi il biglietto da visita della città: moderni e innovativi, oltre che rispettosi della nostra identità, dovrebbero poter essere in grado di determinare quello che nei testi di architettura e urbanistica viene ormai definito come “effetto Bilbao”, determinatosi nella città basca dopo la costruzione del Guggenheim Museum di Frank Gehry. La cosa non è affatto semplice: se si scopiazzasse il classico o il liberty della ricostruzione, si creerebbe un mostro kitsch; se ci si abbandonasse a deliri modernisti senza relazione con l’identità dei luoghi, si correrebbe il rischio di creare un “non-luogo” senza storia né memoria, usando la definizione coniata dall’antropologo francese Marc Augé.
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Viste le analogie, è utile osservare più da vicino il Guggenheim Museum e l’indotto “effetto Bilbao”. La città basca fino ai primi anni Novanta ha vissuto il dramma di una disoccupazione superiore al 20%: scommesso sull’arte come veicolo di turismo e benessere, essa si è sostanzialmente azzerata. Il positivo trend è stato catalizzato dalla presenza di un edificio-simbolo, il Museo Guggenheim: il circolo virtuoso innescato in un territorio sottosviluppato dalla costruzione di un’icona architettonica è stato da allora definito come “effetto Bilbao”.
Come può la costruzione di un edificio aver cambiato il destino di una città? È occorso un insieme di: fortuna, ingegno creativo, capacità innovativa, lungimiranza
Fortuna. Il luminescente rivestimento in titanio del Guggenheim, la sua maggiore attrattiva, a causa dei costi inaccessibili del minerale, non ci sarebbe stato se negli anni Ottanta la Russia, maggiore produttrice del metallo e in piena crisi economica, non ne avesse messo in commercio un surplus facendone crollare il prezzo.
Ingegno. L’uso di alcuni software dalle enormi potenzialità, utilizzati dall’industria aeronautica, ha scompigliato i principi dell’ingegneria tradizionale, rendendo possibile la concretizzazione della capacità visionaria del costruttore nello spregiudicato design delle asimmetriche superfici rivestite di titanio.
Innovazione. Nel 1997, quando l’architetto Frank Gehry completa il suo Guggenheim, cambiando profondamente l’uso e il significato dell’architettura nel mondo, si inaugura una nuova epoca architettonica, etichettata anche come architettura-spettacolo: da arte o scienza funzionale a dare un alloggio alle persone o una sede alle istituzioni, l’architettura diviene strumento per creare un simbolo, una chiave di lettura di un luogo, un mezzo per meglio definire l’identità di una città o di una regione.
Lungimiranza. Il museo Guggenheim, in cui hanno creduto gli amministratori baschi, diviene un’icona culturale capace di attirare nel nord ovest della Spagna, alla periferia dei flussi turistici tradizionali, una tale corrente di visitatori da cambiare l’economia della regione.
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Nella Reggio “città turistica”, con la costruzione del Centro Polifunzionale a Calamizzi, a mare della stazione centrale e della villa comunale, e del Museo del Mediterraneo, nel rione Candeloro a ridosso del porto, si potrebbe innescare un circolo virtuoso analogo a quello determinatosi nella città basca con la realizzazione del museo Guggenheim.
Marc Augé, l’antropologo francese più volte ospite della nostra città, dice che l’architettura “surmoderna”, creatrice di non-luoghi, non può essere giudicata secondo parametri che poggiano su concetti di luogo o contesto o storia: dagli inizi degli anni Novanta un certo numero di architetti sulla cresta dell’onda si cimenta in edifici-simbolo “surmoderni”, sganciati dal territorio ma in grado di infiammare l’immaginario collettivo. Questi artisti/ingegneri, interpretata l’architettura come una lingua franca da usare liberamente in un mondo globalizzato in cui le grandi città ospitano edifici potenzialmente interscambiabili, sono in grado di creare edifici come segni artistici: pur slegati dal territorio che li ospita, sono comunque in grado di trasformarlo e, proprio in ragione della loro neutralità antropologica, di conferirgli nuovi significati.
I nostri “edifici icona” – frutto di un concorso internazionale di idee vinto da Zaha Hadid, esponente di spicco dello stile decostruttivista che nel 2004 ha vinto il Premio Pritzker già vinto nel 1989 proprio da Frank O. Gehry – nati senza i difetti insiti in quell’architettura dei non-luoghi sganciata dal vissuto storico e antropologico del territorio, potrebbero essere delle icone in grado di aggiungere nuovi significati al nostro territorio e, anche indipendentemente da questi, divenire attrattori di flussi turistici come successo a Bilbao.