Il ricordo è di quelli che rimangono indelebilmente fissati nella mente, senza subire involontari oblii o affabulatorie aggiunte.
Mi inoltro tra gli angusti corridoi di Palazzo TiBi alla ricerca di qualcuno che mi fornisca indicazioni utili: vi si affacciano decine di vani, per lo più asfittici, alcuni vuoti – complice forse “l’ora che volge al desio” – altri svogliatamente vissuti e nei quali non trovo uditorio sensibile. Finalmente, alla fine di una lunga sequenza di mute stanze, un brusio richiama la mia attenzione dall’ultima, in fondo: un femmineo chiacchiericcio attorno a un piccolo acceso focolare – un fornellino elettrico posato per terra vicino a una presa di corrente – con sopra una moka per 6 e, affianco su di una sedia, una decina di tazzine da caffè pronte per l’uso.
Conosco due di quelle signore che, gentilmente, mi invitano a partecipare a quello che, per quanto mi pare di capire, è un rito che più volte nella giornata spezza la noia del loro nulla fare. Declinato l’invito, riesco comunque ad avere le indicazioni desiderate. Sulla base delle informazioni ricevute, riprendo il mio peregrinare nel labirinto della sede dell’Asp 5 (solo chi è entrato a Palazzo TiBi sa di cosa parlo): tentando di ricordare l’itinerario consigliatomi, cambio piano e, in uno scenario poco modificato, alla fine mi trovo quasi per caso lì dove sarei dovuto andare.
A me basta conoscere pochi dati per risolvere il mio problema: ma mi accorgo subito che i miei interlocutori hanno problemi ben più grandi del mio e mi sorprendo, mio malgrado, quasi a consolarli per la loro disgrazia. Succedeva, infatti, che gli amministrativi subivano l’informatizzazione della loro attività come un’inaudita violenza inferta ai loro lenti ritmi: fatti di tranquillo va e vieni tra scrivania e archivi, di lezioso riordinare schede e faldoni, di routinario apporre bolli e passare carte. I dati occorrentimi, naturalmente, non mi possono essere forniti e, alla fine, esco all’aperto con la sensazione di essere sfuggito a un incubo kafkiano (di quelli in cui l’uomo soccombe sempre alla ferrea e fredda inettitudine della burocrazia).
Oggi, passato un bel po’ di tempo da quel giorno, il ricordo riappare vivido e presente: quando alle Poste di via Miraglia incontro un amico che, imbufalito, mi mostra un bollettino di c/c postale di € 0.75 (settantacinque centesimi di euro) intestato all’ASP 5 e il cui pagamento (da effettuarsi esclusivamente tramite c/c postale) era stato richiesto per poter rilasciare un certificato di invalidità.
Questa richiesta di 75 centesimi pagabili solo alle Poste è un’incontrollata coda della passata inefficienza o è espressione di una nuova e vessatoria inabilità amministrativa? Comunque sia, sa un po’ rivalsa da parte dello staff amministrativo dell’Asp 5: il cittadino mi vuole rendere la vita difficile pretendendo che non mi faccia il caffè con la moka, che informatizzi il lavoro, che mi renda più efficiente? E io lo obbligo, se vuole il certificato, a recarsi presso un ufficio postale per effettuare un versamento di 75 centesimi di euro sul conto dell’Asp. Se non avrà più bisogno del certificato, con il ticket potrà comunque prendersi un buon caffé a Palazzo TiBi.