Ogni qual volta si parla dei Moti di Reggio rullano i tamburi della politica di parte, il più delle volte maldestramente oltre che inopportunamente. Quel che accadde nel 1970, infatti, non può essere etichettato politicamente perché fu una rivolta proprio contro la politica: fu una rivolta di popolo, dunque, e tale deve rimanere nel ricordo della città. Il che non è affatto semplice.
Il ricordo di quanto accaduto non è fissato una volta per tutte nella nostra mente; la memoria non è una pietra su cui incidere il graffito del passato: è un sistema vivo e plasmabile, in cui ogni nuova impressione impone una deformazione, che spesso non viene neanche percepita. La memoria, quindi, è fatta anche se non soprattutto di involontarie amnesie e rimozioni, di inconsce sovrapposizioni e revisioni.
Come avviene per gli uomini, la cui personalità evolve dinamicamente modificando l’aspetto dei ricordi e la percezione del passato, del quale addirittura interi blocchi possono andar persi o stravolti nel loro significato; anche per la città, intesa come organismo che evolve e cambia, avviene la stessa cosa: la memoria collettiva della cittadinanza, alimentata dal racconto e dall’affabulazione, finisce col non riportare più fatti ma solo una loro lettura o interpretazione, soggettiva e parziale. Insomma, i Moti di Reggio divengono una narrazione simbolico-sacrale di leggendarie imprese, un mito fondante della città.
Non vi sarebbe nulla di male se a questa memoria mitica si affiancasse una memoria fattuale, cui far riferimento per interpretare e affrontare il presente con l’esperienza del passato.
Il recente annuncio del sindaco Scopelliti di voler realizzare un Museo sulla Rivolta, intenzione anticipata in occasione delle presentazione del filmato rievocativo, non può che piacere: è un giusto e dovuto passo verso la costruzione di una memoria condivisa che vada oltre i racconti e le affabulazioni; oltre le amnesie e le rimozioni, le sovrapposizioni e le revisioni; oltre i ricordi soggettivi e parziali.
Sarebbe sbagliato, però, stralciare l’evento dalla maggiore storia di Reggio e isolarlo in un’enclave che, alla fine, ne sminuirebbe l’importanza: sarebbe molto più utile incastonare la memoria dei Moti in museo di storia cittadina che, partendo dalle origini di Rhegion e dalle fortune di Rhegium, passando per le varie dominazioni e per le due cesure del 1783 e del 1908, si concluda con i Moti del Settanta e con l’ultima metaforica rifondazione.
Si creerebbe un coerente e compiuto quadro d’insieme che collocherebbe i Fatti di Reggio nella collocazione storica che meritano e che non le è stata mai attribuita. Gli storici del tempo, ancora concentrati sull’analisi dei moti del Quartiere Latino di Parigi, del maggio 1968, e di Praga, dell’agosto dello stesso anno, non seppero infatti cogliere la novità di quanto stava accadendo in fondo allo Stivale: spontaneismo sociale; rifiuto dell’opprimente verticismo; anticipazione dei movimenti localistici; rivalutazione dell’identità territoriale; rigetto del conformismo politico; ricerca di autodeterminazione; libertà di seguire le proprie idee e interessi.
Queste “novità”, che oggi fanno parte a pieno titolo del dinamismo sociale postmoderno, allora erano una, forse inconsapevole, certamente pericolosa “avanguardia” culturale che doveva comunque essere combattuta. Questa possibile e inedita lettura libererebbe definitivamente le Giornate di Reggio dall’angusto ghetto del “boia chi molla” in cui l’intellighenzia italiana allora dominante le ha per troppo tempo rinserrate.