"Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l'altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti".
Mettendo in crisi il concetto stesso di "auctoritas", non più esempio da seguire passivamente ma base da cui far partire la propria ricerca, il fondatore dell'umanismo chartrense afferma che l'uomo non deve rimanere immobile ma progredire e nel farlo, più che demolire per ricostruire, deve aggiungere il proprio contributo al già costruito.
Oggi, nella nostra città, osservando lo scempio architettonico degli anni Sessanta, grazie al quale si è creato un irreparabile vulnus all'equilibrato e composto liberty della ricostruzione, e le discutibilissime ultime soluzioni di ristrutturazione degli spazi aperti, più legate ad oniriche astrazioni estetiche che finalizzate alla soluzione dei problemi pratici di vivibilità, non sembriamo nani sulle spalle di giganti ma solo nani.
È come se, nel progettare la città del domani, non si riuscisse che a scegliere che tra due antitetiche posizioni (copiare il passato acriticamente senza innovare; innovare completamente non tenendo conto della storia dell'esistente) senza prendere in considerazione la possibilità di contemperare il rispetto della storia e delle tradizioni con una moderna funzionalità.
Marc Augé, l'antropologo francese più volte ospite della nostra città, dice che l'architettura "surmoderna", creatrice di non-luoghi, non può essere giudicata secondo parametri che poggiano su concetti di luogo o contesto o storia. Si riferisce all'esperienza di un certo numero di architetti sulla cresta dell'onda che, dagli inizi degli ani Novanta, si è cimenta in edifici-simbolo "surmoderni", sganciati dal territorio ma in grado di infiammare l'immaginario collettivo.
Questi artisti/ingegneri, interpretata l'architettura come una lingua franca da usare liberamente in un mondo globalizzato in cui le grandi città ospitano edifici potenzialmente interscambiabili, sono in grado di creare edifici come segni artistici: pur slegati dal territorio che li ospita, sono comunque in grado di trasformarlo e, proprio in ragione della loro neutralità antropologica, di conferirgli nuovi significati.
Questo detto può essere considerato valido quando si deve riqualificare un grande spazio degradato a ridosso del centro urbano. Nel caso di Reggio validissimo per la riqualificazione degli spazi a mare posti agli estremi del water front con due "edifici icona", frutto di un concorso internazionale di idee vinto da Zaha Hadid, esponente di spicco dello stile de costruttivista, che nel 2004 ha vinto il Premio Pritzker. (Premio peraltro già vinto nel 1989 proprio da Frank O. Gehry, che col suo Guggenheim Museum a Bilbao, completato nel 1997, ha inaugurato l'architettura-spettacolo).
L'ipotesi di cui sopra diviene assolutamente impraticabile quando si parla di riqualificazione di spazi aperti inseriti nel centro storico (nel nostro caso: Piazza Carmine, Largo Orange, Piazza Duomo, Piazza De Nava, Piazza Italia, Piazza Garibaldi). In questi casi l'intervento dev'essere (in due casi, purtroppo, sarebbe dovuto essere) attentissimo a rispettare la storia del luogo e, pur rifacendosi a idee generali, deve calarsi con discrezione e rispetto nella realtà del quartiere.
Ciò detto, per non essere solo nani ma avere lo sguardo lungo di chi è seduto sulla spalle di giganti, nel progettare il nuovo, ci si deve affidare all'esperienza del passato e rispettare il vissuto antropologico delle piazze senza operare stravolgimenti identitari.