Lunedì, 30 Gennaio 2012 18:17

LA BREVE VITA DI UN PICCOLO INDIANO

Negli anni Settanta, agli inizi della mia attività professionale, non era infrequente che alla porta dell'ambulatorio si affacciasse un quadretto familiare costituito da una coppia di contadini modestamente vestiti che, con cauto e ossequioso incedere, dopo l'invito a farsi avanti, procedesse verso di me fin quasi a porgermi il neonato che la donna stringeva al petto. Si avvertiva, nonostante la mia giovane età, una fiducia pressoché cieca verso la figura professionale;

 cui seguiva un assoluto rispetto per le prescrizioni, che venivano eseguite con pedissequa esattezza senz'alcuna richiesta di chiarimenti.

Erano tempi diversi: in questo come in altri casi simili, che i medici incanutiti sicuramente ricordano, l'ignoranza e la povertà non davano ai pazienti alternative all'essere in completa dipendenza da quanto prescritto dai sanitari. Oggi non è più così: a cominciare dall'enorme passeggino in stile suv che passa appena dalla porta dello studio, per finire con la lunghezza estenuante delle spiegazioni che si devono dare sul perché di una data prescrizione.

Il 20 dicembre dello scorso anno il descritto quadretto familiare ricompare all'uscio come per incanto e mi viene "affidato" S. G. È nato tre mesi prima, pesa 4.800 grammi ed è in buone condizioni. Non do nessuna prescrizione particolare tranne quella di effettuare le vaccinazioni preso il centro vaccinale dell'Asp. La difficoltà relazionale, dovuta al fatto che i genitori indiani conoscono solo poche frasi in italiano,fa sì che la visita si concluda senza approfondimenti sulle condizioni igienico-ambientali familiari.

Il successivo 27 rivedo la famigliola. Il piccolo apparentemente non è sofferente ma, se i genitori lo riportano dopo solo sette giorni, un motivo ci deve pur essere. Trattengo quindi il mio disappunto e visito S. G. In effetti, nonostante le apparenze e la mancanza di febbre, ha una tonsillite, evento alquanto raro alla sua età. La prescrizione terapeutica è un calvario: alla fine, tra disegnini su carta e gestualità esplicative, riesco a farmi capire sui modi e sui tempi della somministrazione della terapia. Raccomando di ritornare a breve.

Il 4 gennaio ritornano. Il piccolo non mi piace. Apparentemente ha solo un processo infiammatorio delle alte via respiratorie, senza febbre o sintomi particolari, ma il suo peso è identico a quello della prima visita, indice indiscutibile che comunque vi è qualcosa che non va e che necessitano più approfonditi accertamenti ospedalieri. Spiego ai genitori la necessità di un ricovero e, pur con difficoltà, vengo capito.

Rivedo G. S. lunedì 16. È stato dimesso dopo un paio di giorni di degenza con la diagnosi di bronchite e terapia antibiotica da continuare a domicilio. Il peso è buono ma le condizioni generali, pur decisamente migliori rispetto alla precedente visita, non mi convincono. Rinvio il piccolo all'osservazione ospedaliera per ulteriori accertamenti.

Lunedì 23 ricevo la telefonata di un parente del piccolo G. S. che, comunicatomi che il piccolo è morto la sera prima in ospedale, mi invita a prendere informazioni sulle cause del decesso. Shock settico, mi viene riferito in ospedale. Dai parenti dei genitori, che incontro in mattinata, vengo a sapere che giovedì 19 il piccolo è stato visitato in ospedale ma giudicato non ricoverabile e che domenica 22 il sanitario del 118, chiamato preso il domicilio, non aveva ritenuto di dover ricoverare G. S.

Tralasciando i dettagli tecnici e altri aspetti oggetto di valutazione da parte della magistratura, la domanda che sale spontanea è: siamo in presenza di un caso di malasanità, come apparentemente sembra essere, o non siamo piuttosto di fronte a un insieme di eventi che ha un ben preciso comune denominatore, quello di un'insufficiente comunicazione per povertà e ignoranza?

In altri termini, se i genitori di S. G. si fossero fatti capire meglio e avessero avuto contezza dei loro diritti, se non avessero avuto cieca fiducia nei sanitari e avessero preteso attenzione e rispetto (che, prescindendo da eventuali altre responsabilità, penso proprio che non abbiano ricevuto), sono certo che quanto accaduto non sarebbe successo.

I genitori di S. G. erano taciturni e ossequiosi, timorosi e rispettosi, il loro sguardo era pieno di fiducia: una volta sarebbero stati anche rassegnati alla fatalità di eventi predatori di vite. I sanitari, non più abituati a tale atteggiamento e ormai assuefatti ad agire sotto la spinta emotiva delle ansie parentali, hanno presumibilmente sottostimato una patologia che non veniva "evidenziata" con sufficiente fermezza dai genitori.

Non credo che, a parte quanto detto (che comunque non è poco), vi siano più gravi responsabilità: quella maggiore forse l'abbiamo tutti, incapaci ormai di fermarci un po' ad ascoltare. Mentre è proprio l'ascolto che ci dà quelle informazioni che, se non sono proprio un antidoto all'errore, comunque ci fanno sbagliare di meno.

 

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