Motta san Giovanni - 22 settembre 2015
Ristorante l'Oleandro
Relatore ing. Antonino Genoese
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RATIO E SINTESI
La condizione agro-silvo-pastorale del territorio aspromontano di Reggio Calabria (Parco Nazionale d’Aspromonte), particolarmente dell’area grecanica, zona parzialmente bilingue a forte identità locale, era caratterizzata da una fauna edibile in cui spiccava la presenza della cosiddetta capra aspromontana. Questo ruminante, infatti, era presente in maniera massiccia (oggi molto meno) nelle comunità agricole che vivevano all’interno del territorio provinciale reggino ed era addirittura predominante nei territori montani la cui orografia “aspra” (da cui il termine geografico di Aspromonte) consentiva solo agli animali piccoli e agili e robusti di potere sopravvivere in quella particolare conformazione oro geografica.
Le comunità agricolo-pastorali aspromontane, per la scarsezza di vie e mezzi di comunicazione, fino a circa gli anni Settanta del trascorso secolo vivevano in una situazione di quasi totale isolamento, con un’economia contadina dai relativamente modesti scambi con l’esterno (vendita dei prodotti dell’orto e caseari) e con un’alimentazione quasi esclusivamente a base di nutrimenti prodotti in loco. Questa era, pertanto, prevalentemente vegetariana, se si eccettua la capra che, oltre ai prodotti caseari (formaggio e ricotta caprina), forniva la sua carne.
Sulle tavole contadine la cosiddetta “carne minuta” (ovina o caprina secondo la predominanza di queste specie sul territorio), insieme alla carne di maiale, compariva solo nelle occasioni particolari (feste familiari o religiose, festività settimanali, ecc). La carne di capra, più selvatica e meno grassa della pecora, era comunque la carne per antonomasia della cucina arcaica aspro montana.
Le tipologie di animali utilizzate nella preparazione dei gustosi piatti tipici della cucina contadina sono cinque, derivanti dalla gestione del gregge allorquando i pastori devono provvedere al rinnovo annuale degli animali per ottenere sempre il massimo della produttività.
In genere gli animali da carne sono il cosiddetto “scarto” costituito da:
- Animali vecchi, non più produttivi (capra in genere);
- Animali sterili, non in grado di procreare e quindi non più produttrici di latte (lastra o crapa strippa);
- Animali maschi giovani, al massimo di 6/7 mesi di età (ciaureddu e, quando castrato, zaccugnu);
- Animali giovani femmine, al massimo di 6/7 mesi di età (ciauredda, la migliore in assoluto per la delicatezza delle carni);
- Capretto.
Escluso il capretto, che necessita di una trattazione a se stante per la sua diffusione sulle tavole non contadine e per il suo indissolubile legame con i riti pasquali, i primi quattro tipi vengono cucinati prevalentemente in umido, con piccole variazioni degli ingredienti usati, che generalmente risultano essere: cipolla, pomodori (da preferire quelli tondi rossi, con ancora qualche sfumatura rosata, perché molto succosi), olio di oliva, aromi come prezzemolo, basilico, rosmarino, origano, peperoncino e alloro.
In alcune preparazioni si usa, all’interno della pentola, ricoprire la carne e gli altri aromi, con acqua (crapa bugghiuta).
La cottura ideale, la cui origine risale al periodo magno greco (dal VII secolo a. C. in poi), è quella che prevede il tegame di terracotta ed il fuoco a legna. Tuttavia anche la cottura nelle pentole moderne (acciaio, alluminio e rame) garantisce risultati eccellenti.
La carne è cotta quando si distacca facilmente dall’osso.
Con il sugo (che si consiglia di passare al passatutto, per eliminare l’eventuale presenza di ossicini) si condisce la pasta (rigorosamente maccheroni fatti a mano o ziti) sulla quale va sparso abbondante pecorino o, meglio ancora, ricotta salata.
Nella versione bugghiuta si usa cuocere la pasta direttamente nell’acqua di cottura della capra.
Esistono, comunque, altre preparazioni, come ad esempio la capra cucinata al ragù oppure arrostita sulla brace (in questo caso si utilizzano solo animali giovani).
Interessante è anche la preparazione della cosiddetta capra sotterrata, le cui origini vanno ricercate in antichi riti tribali: per la complessità del piatto, richiede condizioni particolari che pochi possono disporre.
Innanzi tutto bisogna disporre di un terreno all’aperto, nel quale va fatta una fossa della profondità di circa 60 cm, della larghezza di circa 50 cm e della lunghezza di circa un metro. Il suo fondo, per isolarlo dalla terra, va “foderato” con uno strato di sabbia e felci.
Scuoiato l’animale e conservatane la pelle, si procede a farcire la carcassa con vari aromi: rosmarino, prezzemolo, origano, cipolle, sale, olio, alloro.
Completata la farcitura, si stende la pelle con il lato interno verso l’alto e, su questa, si deposita l’animale. Si aggiungono ancora aromi e si procede a ricucire l’animale dentro la sua pelle.
La capra, così ricomposta viene adagiata sul letto di felci, all’interno della fossa; viene, poi, ricoperta con altre felci e su queste si deposita uno strato di terra alto circa 10-15 cm.
Richiusa la fossa, su di essa si accende il fuoco, usando solo legna senza carbone, per circa 7/8 ore.
Aperta la fossa dopo questa lunghissima cottura, si estrae l’animale che, scucita la pelle, viene spezzettato e servito ai commensali dal “cuciniere”.
Ancora oggi questa preparazione viene fatta, in una sorta di rito per iniziati, durante summit locali in cui vengono trattati temi di comune interesse, come segno di rispetto verso i partecipanti, influenti personaggi delle località montane interessate.