Giovedì, 02 Agosto 2012 08:39

PRIMA LA TRIPPA VIEN, POI LA VIRTU: È NECESSARIO UN NUOVO PACTUM SCELERIS?

Corleone, 10 agosto 1958: Luciano Liggio uccide il suo boss Michele Navarra. Finisce così il pactum sceleris tra Stato e Mafia. Questa sostanziale trasformazione della vecchia mafia (per intenderci quella di Genco Russo, Vanni Sacco, Calogero Vizzini: che controllava il territorio sulla base di leggi non scritte ma ampiamente condivise oltre che approvate dalle forze dell'ordine) in un nuovo tipo di gangsterismo che quelle regole irrideva rifiutandone i valori di riferimento, faceva sì che la consorteria occulta non avrebbe più potuto avere diritto di ospitalità in seno alla compagine amministrativa statale.

 

Di quanto la mafia contribuisse all'amministrazione e al controllo statale del territorio, più che da saggi e trattati, oggi lo si può evincere dalle parole che Guido Lo Schiavo, Procuratore Generale dello Stato preso la Corte di Cassazione, scrisse in occasione della morte di Calogero Vizzini: "Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è un'inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l'opera del giudice. Si sono avute di recente, in Sicilia, le prove di un affiancamento della mafia alle forze dell'ordine." Ma non basta, nella parte finale del suo scritto l'alta carica dello Stato così si esprime: "Si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto delle leggi dello Stato e del miglioramento sociale della collettività".

Tutto ciò accadeva più o meno cinquant'anni fa: un'eternità, in termini evolutivi sociali. Ma ancora negli anni settanta e ottanta una coda dell'antico pactum sceleris sopravviveva: fu troncata nel 1992, con la morte di Falcone e Borsellino (anche se l'attuale querelle sulle intercettazioni del Quirinale fa nascere qualche dubbio in proposito).

Oggi, a venti anni dal 1992, possiamo assolutamente condividere le memorabili parole che Giovanni Becchelloni scrisse dopo l'uccisone di Carlo Albero Dalla Chiesa: "La cultura della camorra e quella della mafia sono incompatibili, non possono coesistere, con la cultura di una società che fonda le proprie regole di convivenza sull'ordinamento democratico. Si tratta di uno di quei casi in cui le alternative si presentano secche: o noi o loro!"

Si possono fare le stesse considerazioni quando si parla di economia o non sarebbe meglio accettare la massima latina "pecunia non olet"? Domenico De Masi, negli anni novanta, ben dopo l'uccisione di Falcone e Borsellino, si pone questa domanda: "Sarebbe possibile che proprio da queste attività criminali scaturisca un'accumulazione primaria e una forma nuova di imprenditorialità locale, man mano che i soldi sporchi vengono riciclati in aziende pulite?".

Ci sarebbe molto da riflettere sulla presenza nel Meridione di quello che ho definito come "quarto settore" dell'economia (riconducibile più o meno direttamente a capitali di dubbia provenienza e che si affianca al primo, il pubblico, al secondo, il privato, e al terzo, quello del non profit).

Gli ultimi fatti di cronaca giudiziaria reggina sono preoccupanti, e non certo per l'energia con cui sono state operate le misure restrittive: anche in questi casi è assolutamente condividibile l'affermazione "o noi o loro". Preoccupano per le ripercussioni sul "quarto settore", che da noi è preponderante anche perché il più delle volte è embricato al secondo e al terzo, se non anche al primo.

Com'è possibile nella nostra città operare nel mercato con la logica del "o noi o loro"? Le misure restrittive non rischiano di compromettere attività lecite e pulite che comunque sono obbligate ad avere rapporti con il quarto settore? Domande alle quali si dovrebbero dare risposte perché, usando le parole che Bertolt Brecth usa in "Opera da tre soldi", "prima la trippa vien, poi la virtù".

 

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